venerdì 17 dicembre 2010

Forse non tutti sanno che...ogni tanto ci si inalbera

Conduco un programma che ha lo scopo di dare notizie insolite, "oltre la prima pagina", che possano - magari - sollevare il morale di chi ascolta la radio di prima mattina. Ma fingere non è il mio forte. E ogni tanto condivido le mie amarezze con chi mi ascolta. Che, per fortuna, ha ancora la forza di indignarsi assieme a me. Così è iniziata la puntata di oggi.

Qui si va"oltre la prima pagina"; ma quello che si trova in prima pagina è sempre più preoccupante, ma chi dovrebbe veicolare le informazioni non sembra farci sempre caso.

O forse sono io ad avere un concetto di “Notizia” diverso da quello che leggo sulle prime pagine.

Ieri a Trani si è rovesciato un tir carico di pasta. Per fortuna, solo tantissima paura: nessuno si è fatto veramente male.

Per molti tg – adesempioStudioAperto – la notizia era il simpatico e rocambolesco incidente.

Per me, al di là della dinamica dei fatti, la notizia è che la gente è accorsa sul luogo dell'incidente per portarsi a casa la pasta.

Mi ha terribilmente ricordato l’assalto ai forni di cui Manzoni scrive nei Promessi Sposi. “Ecco se c’è il pane”. Ecco se non c’è più la crisi.

Sempre in prima pagina si trovano ancora gli strascichi dei terribili scontri di Roma, avvenuti nei minuti successivi al voto di fiducia al Governo.

In prima pagina finisce il “Ragazzo con la pala”, simbolo – per quelle prime pagine – della lotta e della crisi.

Forse, come dicevo, sono io ad avere un concetto di “notizia” diverso, ma per me quel ragazzo è simbolo di una certa idiozia, che sia di destra o di sinistra non importa: perché l’idiota, come il prezzemolo, va su tutto.

Il “simbolo della protesta e della crisi” - quello che secondo me fa "Notizia" - è il ragazzo che scende in piazza, urla, cerca un dialogo, e si incazza quando gli è negato. È quello che non si sognerebbe mai di marciare a volto coperto lanciando sassi ai poliziotti.

Lo scriveva ieri Saviano su Repubblica: “Non copritevi, lasciatelo fare agli altri: sfilate con la luce in faccia e la schiena dritta. Si nasconde chi ha vergogna di quello che sta facendo, chi non è in grado di vedere il proprio futuro e non difende il proprio diritto allo studio, alla ricerca, al lavoro. Ma chi manifesta non si vergogna e non si nasconde, anzi fa l'esatto contrario. […]Se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta.”

domenica 5 dicembre 2010

"Come staremmo bene qui, se noi fossimo altrove" [cit. G. Manganelli]

Questo post appartiene al passato. Ma i cattivi pensieri sono spesso a lunga conservazione, e tornano su – ciclicamente – come la peperonata. Non che sia tornato oggi. Ma torna, ogni tanto, mio malgrado.

E così arriva. Improvviso, ma neanche tanto.
Come un crampo dopo un lungo camminare, arriva il giorno in cui non sopporti praticamente più nessuno. Non trovi subito una buona ragione, semplicemente ne hai abbastanza.

Cominci a prenderla alla larga. Non sopporti più l’amica che ti ha tradito, l’amico che ti ha deluso.
Tutto questo, però, è ancora piuttosto tollerabile.
Inizi a sentirti spiazzato quando non sopporti più la suoneria dei messaggi del tuo cellulare, perché “oddio qualcuno potrebbe chiedermi di uscire”. Non sopporti più i loro sorrisi, i loro ritardi, i loro modi di fare, le loro domande e le loro risposte, i posti che frequentano, le cose che malamente nascondono, il loro cercarsi tra le righe di ogni cosa che dici e ogni cosa che scrivi, egocentrici. Il loro volersi ritrovare assieme come se ogni volta gli facesse davvero piacere. Bugiardi.

Non sopporti
più le loro lamentazioni, il loro straparlare senza fare nulla. “Oh, sai, se dipendesse da me…ma purtroppo…”. Una bellissima scusa che inizierai a prendere in prestito, un giorno o l’altro. E perché non oggi? “Oh, sai, se dipendesse da me…ma purtroppo…non ti sopporto più”.
Ne hai abbastanza dei loro tic, delle loro manie e delle paranoie che ti costringono a stare attento a come ti muovi. A stare attento a ognuno in modo diverso.
La costrizione è nemica della libertà. E se siamo nati per stare liberi, forse siamo nati per stare soli.
Già, non staresti meglio da solo?
Non dovresti fare buon viso a cattivo gioco, non dovresti metterti a letto ogni sera sperando di non sentire russare qualcuno al tuo fianco, non dovresti ricacciarti in gola un “vaffanculo” quando qualcuno ti mette una scarpa sporca di merda sulla testa.

Non staresti molto meglio se riducessi tutto ai minimi termini tipo “buongiorno buonasera grazie prego”?

Certo che staresti meglio, non berresti più il veleno che non è tuo, niente scuse, niente “scusa”, avresti addosso soltanto il tuo insostenibile peso.
Non preferiresti
non vederli più? Sapere se stanno bene, ogni tanto, magari da un giornale pubblicato apposta. E non doverci più avere a che fare.
Non preferiresti cliccare sulla “X” e chiudere tutte le finestre?

Perché mai accollarsi la fatica di comunicare se poi non si è compresi.
Lascia stare.
È faticoso sporgersi senza toccare nulla. Ed è faticoso non volerli toccare e poi ritrovarseli nello specchio.


Illustrazione: “I hate those f****** people”, di Giuseppe "Mis-BUG" Longo

domenica 21 novembre 2010

Neglekt Film Festival 2010

Premetto che ho molto rispetto per le rassegne cinematografiche che puntano i riflettori sul cinema “di nicchia”, magari appartenente a Paesi che non sono noti certo per essere delle Mecca del cinema. Sono iniziative lodevoli, e come tali vanno incoraggiate. Dalle istituzioni e dal pubblico. Dico tutto questo senza alcuna ironia e da sincera appassionata di cinema.

Ma. C'è un "ma".
Non si è data, purtroppo, abbastanza visibilità ad un festival che è alla sua prima edizione e che promuove un cinema che fatica – inspiegabilmente – a trovare spazio nel panorama odierno.
Si tratta del Neglekt Film Festival.
Ecco i titoli che fanno parte della rassegna.

Orzata fredda a Machu picchu.
Maria e Frida costruiscono la loro amicizia attraverso piccoli gesti del quotidiano. Una lite tra le zie delle due ragazze le costringe a fuggire in un piccolo villaggio, dove passano le loro giornate sagomando mattoni di tufo e ricordando un passato mai vissuto. Sullo sfondo della vicenda, il Congresso del Perù del 2003, che stabilì che il 10% delle entrate raccolte per l'ingresso nel Parco archeologico di Machu Picchu sarebbe stato destinato alla municipalità di Machu Picchu.

Tanti colori, tutti grigi.
Vendere gioielli è un mestiere pericoloso, ma questa è la vita nei drive-in di Timisoara. Una storia difficile, ricca di colpi di scena, nello scenario duro di una città che fatica a risorgere dalle ceneri di un passato scomodo.

Esterno chiuso.
L’immortale capolavoro del maestro kazako – naturalizzato cecoslovacco – Sergey Drogbaneviznek, in edizione integrale con 45 minuti di contenuti inediti (con sottotitoli in tedesco).

Fanatici clochard.
Un pomeriggio in un salotto dell’alta società parigina. L’amore travagliato tra Franc, maniscalco, e Cosette, modella di stivali. La tremenda istitutrice Nadine che frena i progetti di ristrutturazione della villa della nonna di Franc. Le storie s’intrecciano, legate da un filo che nessuno ha il coraggio di denunciare.

Le favole di chi ha già.
Come separare ciò che è giusto da ciò che non lo è? Ciò che serve da ciò che è indispensabile? Un rappresentante di stoviglie s’interroga sul senso della vita, mentre fuori dai finestrini del suo treno si consuma la tragedia quotidiana di chi ha già scelto: i costruttori di muretti a secco del Turkmenistan e la loro eterna lotta per un trattamento equo sul lavoro, fuori dal cliché della loro stereotipata popolarità.

Come un kabuki al sole.
Tratto da un romanzo inedito di Anselma Vanvéra. In attesa che si risolvano le controversie legali relative alla pubblicazione del romanzo, il regista cileno Herman Llorca ha acquistato i diritti della storia direttamente dalla scrittrice.

Le api non mi amano più.
Margherita vive ad Aversa, dove ha una vita perfetta, fino al giorno in cui la vita segreta del suo compagno viene a bussare alla sua porta. Fugge a Berlino in autobus, arrivando in città nei giorni della caduta del muro: Franz sarà la sua guida e la aiuterà a fare i conti con la sua dismorfofobia.

Ci incontreremo crudi.
La vita può essere molto diversa, se si è costretti a guardare il mondo soltanto da una finestra. Una ballerina si rompe il tendine d’Achille in un incidente sul ghiaccio. Da quel momento decide di non uscire più di casa, e costruisce un mondo tutto suo, in compagnia dell’orso Carl e della mangusta Marko. Ma non sempre le creature immaginarie sono benevole…

Omettendo Pablo.
Cile, 1969. Marcel Oriega sta scrivendo la sua prima raccolta di poemi politici, ma gli ostacoli che poi hanno fatto la sua storia daranno un nuovo corso a tutta la sua opera. Il film è stato scritto con la consulenza di Lucia Oriega, vedova del poeta.

Nel corso del Festival verranno presentati anche i cortometraggi di autori emergenti
Altrimenti la Palestina, Non sapevo fosse tuo e Così come aveva chiesto Alfredo.

Grazie a Giuseppe Longo per la preziosa collaborazione nella raccolta del materiale. Per ulteriori informazioni sul Neglekt Film Festival, cliccare qui.

lunedì 15 novembre 2010

Domenica è sempre domenica

“I don’t like mondays”…si fa presto a dire che il lunedì è brutto. Ci si deve alzare presto dopo un paio di giorni di sonno extra, si devono di nuovo affrontare il lavoro (o l’università) e tutte le grane quotidiane che sembrano sospese nel weekend. Quasi odiamo l’immagine di noi stessi che andiamo via dall’ufficio venerdì, tutti sorridenti. Diciamo a quell’immagine: “Che cacchio ridi! Ora devo fare io il lavoro che tu hai lasciato in sospeso venerdì!”.
“I don’t like mondays”: hai scoperto l’acqua calda, Bob.

Della domenica pomeriggio, invece, si parla poco.

Tutto scorre più o meno
tranquillamente fino a poco dopo il pranzo: d’altra parte, è un po’ difficile deprimersi davanti al ragù. Ma dopo, mentre Massimo Giletti sciorina una perla di buonismo a caso, Barbara D’Urso inarca le sopracciglia in una “v” rovesciata di michelangiolesca pietà catodica e Simona Ventura cerca di essere espressiva nonostante il botox, allora tutto lentamente cala. Indipendentemente dalla tv, tramonta il sole sul giubilo del weekend.
Se è stato tutto piacevole, allora di domenica pomeriggio arriv
a – spesso accompagnato dal sonoro “gong” di un’emicrania – il pensiero di ciò che c’è da fare l’indomani (e vorremmo proprio ucciderla, l’immagine di noi stessi che venerdì diciamo “ma sì, questo lo finisco lunedì”); la sensazione che si prova facendo i bagagli alla fine di una bella vacanza, ecco.
Se invece il weekend è andato male, iniziamo a deprimerci per tutto quello che è andato storto, per le cose che non siamo riusciti a fare e che ora è troppo tardi per fare: il tutto, spesso, accompagnato dal sonoro “gong” di un’emicrania.
Insomma, che sia andata bene o male, non c’è scampo da questa patina di tristezza e dal sonoro “gong” dell’emicrania.

Il rimuginare su quanto accaduto (nel bene e nel male) durante il weekend e i pensieri su tutto quello a cui abbiamo detto “ciao ciao” il venerdì, si mescolano in un pasticcio fatale, che toglie il buonumore.

Cerchiamo di far qualcosa comunque: cinema, birra, libri…ma continuiamo a pensare “non è come dovrebbe essere”.

Recenti studi hanno proposto soluzioni a questa piaga dell’umanità.
L’invenzione del “domedì”, una specie di area di decompressione tra la domenica e il lunedì, che permetta di non esser travolti dal pensiero della nuova settimana, in
modo che non ci si rovini la domenica.
O un sistema di letargo, che ci faccia andare a letto per la pennichella post-prandiale di domenica e ci faccia risvegliare senza preavviso il lunedì, costringendoci ad affrontare tutto di petto, senza aver modo di rattristarci prima.

O ancora un sistema di repliche. Di domenica pomeriggio si potrebbe replicare l’aria di leggerezza e buonumore del sabato.

In attesa che la scienza si occupi di questa serissima questione, non ci resta che stringere i denti e resistere fino al prossimo venerdì, magari lasciando un po’ meno cose da fare in sospeso, per amore di quell’io del lunedì, già tanto provato dalla patina di tristezza della domenica…e dal sonoro “gong” dell’emicrania, ovviamente.

domenica 31 ottobre 2010

Please, please, please...

L’importante, nella vita, non è essere perfetti, ma ammettere le proprie mancanze. E magari colmarle, appena ci si rende conto che di mancanze si tratta.
A un cert
o punto della mia vita, parliamo comunque di un bel mucchietto di anni fa, mi sono accorta che non conoscevo gli Smiths. Mi sono incamminata ai ripari (correre non è mai stato il mio forte), e ho iniziato a recuperare.
Non mi dilungherò in biografie o trattati sulla poetica della
band. Non fa per me, non ne sono capace. Dirò solo che dal momento in cui ho iniziato ad ascoltarli mi sono pentita di non averlo fatto da molto tempo prima. A saperlo prima…avrei avuto tante volte “le parole”. Rubandole alle loro “canzoncine”.
Le chiamo “canzoncine” perché alcune tra le più conosciute hanno una melodia spensierata…anche quando parlano di morte.
Non sono il gruppo migliore del mondo, sicuramente.

È solo che a volte dicono delle
cose. E quelle cose sono esattamente le cose che vorresti dire tu. Crude, magari un po’ banali, ma proprio per questo disarmanti e senza bisogno che gli si aggiunga altro.
Qualche tempo fa ho avuto il
piacere di assistere a un concerto di una tribute band degli Smiths. Dire “tribute band” e basta è sicuramente riduttivo; ma mi limiterò a dire che questi tizi sono davvero bravi.
Il concerto è stato bello…se no non starei qui a parlarne, vi pare? Vi sembro una che scrive un intero post per dire quanto le faccia schifo qualcosa? No! Secondo voi le file in posta che ruolo hanno? Smaltire ordinatamente i clienti? Bazzecole: servono a concedere a ciascun essere umano i 15 minuti di livore necessari a non commettere stragi. Si sfoga la rabbia lì, nella fila alla posta, e poi si può affrontare il mondo con calma.
P
rendete i più grandi serial killer o stragisti della storia: nessuno di loro faceva abbastanza la fila alla posta.
Charles Manson lasciava che ci andasse sempre la zia, per dire.
Ma torniamo agli Smiths e in particolare al concerto degli Hang the Dj (così si chiama la band di “tizi veramente molto bravi” di cui vi ho detto qualche rigo sopra).
Se fossi una giornalista musicale, di quelli fighi che snocciolano la scaletta di un concerto legando i vari pezzi tra loro con frasi bellissime, citazioni, battute e cotillons, potrei farvi capire quanto piacevole fosse la serata.
Ma non lo farò.
Dirò solo quello che mi ha fatto soffermare a riflettere, quella sera.
Il pubblico ballava, canticchiava, rideva…ci si divertiva, insomma. Ma tutti hanno cantato all’unisono due volte.
Entrambe le volte ho pensato che siamo davvero
stanchi, che vorremmo tanto che le cose funzionassero, una volta tanto; che continuiamo a sperare, a volte in modo disperato, aggrappandoci alla vita anche con le unghie, attaccandoci alla vita per non pensare che ci stiamo tutti attaccando al tram.
Please, please, please, let me get what I want this time
…mi guardavo attorno e vedevo tantissimi ragazzi e ragazze dai venti-e-qualcosa ai trenta-e-rotti anni chiedere in coro “per favore, lasciami avere ciò che voglio, stavolta”.
Poco dopo, There’s a light that never goes out, “c’è una luce che non si spegne mai”. “Portami fuori, stasera…non mi importa dove, voglio vedere gente, voglio vedere la vita”.
A volte le “canzoncine” degli Smiths dicono delle cose. E quelle cose sono esattamente le cose che vorresti dire tu. Crude, magari un po’ banali…se lo avessi saputo, avrei iniziato ad ascoltare gli Smiths molto tempo prima.

sabato 23 ottobre 2010

Di cui uno macchiato

Non sono sicuramente la prima a parlarne e non sarò neppure l’ultima.
E poi, a mia difesa, dico che il caffè è stato usato come metafora di vita un po’ per tutte le occasioni.
Immaginate dunque il seguente scenario: A, B e C sono al bar. A e B vogliono ordinare un caffè, mentre C vuole un caffè macchiato.
Si fa l’ordinazione al barista e a quel punto vi si svela davanti il vero nocciolo dell’umana specie.
L’umanità si divide in due grandi categorie. Quelli che cercano di
prendere il meglio dalla vita, e quelli che sono un po’ meno esuberanti, ma ben più pragmatici.
Voi direte “come può tutto ciò rivelarsi ai nostri occhi mentre ordiniamo un caffè al bar?”
E ve lo dico io. Innanzitutto i caffè son tre e non uno. Statemi attenti.

E poi il senso si dipana all’atto dell’appuntar l’ordinazione da parte del barista.

Molti diranno: “Tre caffè, di cui uno macchiato.”

Altri però diranno: “Due caffè normali, più uno macchiato.

Sì, è una sottile parafrasi del
bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma è molto più precisa, come metafora di vita.

L’uomo di cui uno macchiato è una persona cauta, che valuta le cose con occhio pratico e mette da parte quanto più possibile per i periodi di magra (come avrete già intuito, più che somigliare solo al bicchiere mezzo vuoto, assomiglia anche alla storia della formica). Non è un pessimista di quelli deprimenti; semplicemente, ci va piano. Se state stabilendo una relazione con una persona di cui uno macchiato, la riconoscerete dal suo modo cauto di allungare un braccio per cingervi al cinema, o dalla sua titubanza prima di invitarvi a salire a casa sua per un drink. Se conoscete una persona di cui uno macchiato, probabilmente ha tra i suoi modi di dire preferiti “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Non è tirchio, ma preferisce aspettare i saldi per comprare qualcosa che gli piace particolarmente.
Valuta la vita come un insieme di tre caffè, di cui uno macchiato. Ma i caffè son tre. Non ce ne saranno altri. Di quei tre caffè, il barista valuta che uno, uno solo di essi, è macchiato. E non c’è altro. Questo è quanto ti concede la vita, usalo con parsimonia.

L’uomo più uno macchiato, invece, è vagamente ottimista. È quello che userebbe “Always look on the bright side of life” come colonna sonora della propria vita. Sa benissimo come stanno le cose, attenzione: non è uno sprovveduto, né tantomeno un discendente di quell’odiosa Pollyanna che – per inciso – secondo me si drogava; non si spiegano tanto perenne ottimismo e felicità, se no. Ma non divaghiamo, torniamo all’uomo più uno macchiato. Non è uno sprovveduto, dicevo, sa benissimo come stanno le cose, però cerca di guardarle da una prospettiva più rosea. Magari è conscio di non guadagnare molti soldi, però se vede qualcosa che gli piace, la compra senza pensarci troppo. Ha le mani un po’ bucate, e tende a pensare che a tutto ci sia una soluzione. Se conoscete una persona più uno macchiato, probabilmente ha tra i suoi modi di dire preferiti “Solo alla morte non c’è rimedio”. Valuta la vita come un insieme di tre caffè, ma questo insieme lo scorpora, così gli sembra di avere di più. Sono tre, è vero. Ma due sono normali, in più ce n’è uno macchiato.

Ciascuno di noi può essere di cui uno macchiato un giorno e più uno macchiato il giorno dopo: si tratta solo di un modo di vedere la vita e affrontare le sue sfide quotidiane.

Di cui uno macchiato e più uno macchiato.

lunedì 4 ottobre 2010

Toccare il fondo...con un dito (sul telecomando).

Questo non è un blog di politica. Sto per scrivere di un momento della mia vita in cui mi sono un po’ spaventata. E mi sono vista costretta a riflettere. Mio malgrado, anche di politica, in qualche modo. Ma più che altro di informazione, di informazione deviata e di capacità di giudizio. E della responsabilità enorme che hanno i lettori/spettatori di recuperare la propria capacità di giudizio di fronte a una informazione impazzita, almeno in parte.

C’è sempre un momento, durante un periodo di difficoltà, in cui ci si acco
rge che si è toccato il fondo.
Può essere il moment
o in cui si ha così bisogno di cibo che ci si ritrova a mangiare roba scaduta. Può essere il momento in cui ci si porta a letto una persona orribile e al mattino poi ci si chiede “ma che diamine ho fatto”. Insomma, c’è un momento che poi diventa un aneddoto che si racconta iniziando la storia con “ho capito che avevo toccato il fondo quando…”.
Ho capito che ave
vo toccato il fondo quando ho detto “E c’ha ragione” a proposito di una dichiarazione di Silvio Berlusconi.
C’è davvero qualcosa che non va nel mio Paese, se arrivo a dire una cosa del genere.
Stavo commettendo il fatale errore di guardare un tg.
In questo modo mi rendo conto che il dibattito politico si è spostato da una cosa serissima come la cucina Scavolini di Montecarlo a una cosa altrettanto seria: una barzelletta. Viene trasmesso un servizio a proposito della suddetta storiella, raccontata in un contesto privato (per quanto possa essere privata la visita di un capo di governo che dopo gli impegni ufficiali si trattiene a chiacchierare con alcune persone presenti all’incontro) e ripresa con un telefono cellulare (non dalle telecamere dei
giornalisti, non presenti in quel particolare momento).
Dopo il servizio sulla barzelletta, il giornalista annuncia che ci sono state numerose indignate reazioni alla cosa. Parte un altro servizio in cui è raccolta circa una decina di pareri sulla questione. Condanne, sostanzialmente.

In tutto, questo argomento occupa una decina di minuti del tg.

Poi si passa alla nota relativa al commento del protagonista della vicenda: Silvio Berlusconi. Il quale dichiara che n
on è da colpevolizzare la storiella, ma chi ha filmato e reso pubblico un momento privato. E chi, in seguito, strumentalizza questo episodio per accusare la figura di Berlusconi.
È stato qui che ho detto “c’ha ragione”. Sicuramente i motivi per cui ha
detto quelle cose sono diversi dai motivi per cui di fondo condivido le parole che ha usato. Sicuramente le sue intenzioni sono diverse dalle mie. In realtà non “c’ha ragione” per niente, è solo una coincidenza che abbia usato parole che possano assumere anche un significato ragionevole (che di certo non intendeva veicolare).
Ho toccato il fondo, ma non mi sono mica rimbambita.

Condivido le parole, e solo quelle, in realtà. Oggettivamente è vero che è da colpevolizzare chi ha ripreso e diffuso un momento di vita privata di un personaggio pubblico senza la sua autorizzazione (coraggio: chi non ha mai fatto una battuta, anche molto colorita, anche fuori luogo, anche blasfema, su una collega un po’ bruttina?). E soprattutto, oggettivamente è da criticare di più chi poi usa una barzelletta per dire che “Silvio Berlusconi non
è degno di governare questo Paese”.
Quest’uomo davvero non è degno di governare il Paese soltanto in virtù di cose come una barzelletta di trenta secondi?

Serve che dica che Rosi Bindi è brutta? Serve che faccia le corna in una foto o che faccia “BU” ad Angela Merkel? I tg vogliono davvero concentrarsi su questo? Qualcuno, guardando, potrebbe davvero pensare “ma dai, lo stanno demonizzando per il suo c
arattere gioviale, quest’uomo”.
Punto.

Se non ci si va a cercare i motivi per cui davvero quest’uomo non è degno di governare il Paese, all’apparenza si vede solo una persona un po’ troppo esuberante e con un senso dell’umorismo a volte terribilmente fuori luogo. Punto.

Riprendere la propria
capacità di giudizio. Queste sono parole di Roberto Saviano che da giorni non mi tolgo dalla testa. Queste sono le parole che cerco di tenere sempre presenti quando guardo i tg, quando sfoglio i giornali, quando ascolto la radio.
Non bevo passivamente quindici minuti di tg dedicati a una barzelletta (una barzelletta!) e non bevo passivamente l’accostare un gesto incosciente come pubblicare immagini senza il consenso della persona coinvolta, al decreto sulle intercettazioni (sacrosanto strumento di indagine e di informazione, quando queste intercettazioni entrano a far parte delle carte processuali).

Il fatto che qualcuno si incazzi ancora per un’informazione deviata, per il rischio di insabbiare ciò che davvero dovrebbe farci urlare allo scandalo, forse è segno che dal fondo si può ancora risalire.

Il fatto che invece, quando viene fuori il fango vero, siamo ancora tutti qui seduti a parlare di barzellette o a guardarci l’ombelico, non mi fa ben sperare per niente.

Quello che succede in Italia è oltre le barzellette, le case a Montecarlo, le cucine Scavolini.

Bisogna aprire gli occhi.

Tenere sempre, sempre gli occhi aperti.

E riprendere la propria capacità di giudizio.

domenica 26 settembre 2010

Succede solo a Bari.

La città in cui vivo io ha carattere, e questo non è sempre un bene; per le città vale un po’ ciò che si dice a proposito delle persone: quando qualcuno ha carattere, si dice che ha un brutto carattere.
Ma ci sono delle volte in cui viene voglia di abbracciarla, questa città, o almeno di raccontarla a tutti.
Pensavo di aver toccato il picco di bizzarro stralcio di vita urbana un giorno, in attesa di un amico fuori da una banca. Due ragazzine, dell’apparente età di quindici anni, chiacchieravano delle loro disavventure amorose. Di quanto sia difficile dimenticare un ragazzo che proprio non ti si fila. Una ha ascoltato pazientemente lo sfogo dell’altra, finché questa non si è fermata in attesa della perla di saggezza finale della paziente ascoltatrice. Costei ha infine cercato di spiegare che a volte le persone ci segnano in modo indelebile, e non è possibile dimenticarle, anche se non hanno mai ricambiato le nostre attenzioni. Useremo “Nico” come nome di fantasia e dovete immaginare tutto questo proferito con marcato accento barese: “Vedi per esempio Nico? Quello non mi piscia e non mi caga, eppure resterà per sempre nel mio cuore!”.
“Non mi caga”, di solito così si dice. Ma l’insensibile Nico deve aver passato la misura di quanto si possa ignorare una povera ragazza. Che comunque lo porterà per sempre nel suo cuore.
Ma nuovi picchi di bizzarria urbana mi attendevano, anche se ancora non lo sapevo.
Qualche giorno fa ero alla fermata dell’autobus; accanto a me un pingue e vivace ragazzino, che sembrava parlare soltanto dialetto, accompagnato da un’imponente madre e un’altrettanto imponente zia, si stava sciacquando le mani con dell’acqua da una bottiglietta di plastica, incurante degli schizzi che volavano un po’ ovunque (anche addosso all’altra gente in attesa del bus). Svuotata la bottiglia, l’ha gettata a terra e ci ha palleggiato qualche secondo, dopo di che l’ha lasciata sul marciapiede.
Ho valutato lo scenario. “Se gli dico qualcosa, potrebbe picchiarmi…o potrebbero picchiarmi le due signore che lo accompagnano…”.
Ma mentre ancora stavo facendo i conti di quante ossa avrebbero potuto rompermi con un solo “AUE’!” ben assestato, mi sento proferire ad alta voce:
“Giovanotto? Guarda, c’è un cestino, lì…se butti la bottiglia nel cestino è meglio: questa città fa già abbastanza schifo…”
Ora mi picchia. Ora mi scaglia addosso le signore e mi fanno la festa.
Invece no. Lui non mi ha picchiata. Ha raccolto la bottiglia e si è incamminato verso il cestino che gli avevo indicato. Le imponenti signore mi hanno solo guardata e io mi sono affrettata a dire che probabilmente il bambino si era solo distratto, magari non intendeva sporcare di proposito. Le signore mi hanno sorriso.
Intanto il ragazzino, dopo aver adempiuto il suo gesto civile della serata, è tornato verso di me urlando: “Mo’, che iè adaver u fatt’: chessa città iè ‘na mmerd’!”*
Che si sia reso conto di quanto sia facile e civile, tenere in ordine la città? Che magari la prossima volta ci pensi due volte, prima di lasciare qualcosa a terra?
Non ho di certo salvato il mondo; ma mi sono sentita meglio, dopo questo episodio.
Soprattutto perché alla fine non mi ha menato nessuno.


Photo: Adele Meccariello - (C) 2010 All rights reserved


* “Accidenti, è proprio vero: questa città versa proprio in pessime condizioni igieniche!”

mercoledì 15 settembre 2010

Forse non tutti sanno che...

Diciamo che ho un lavoro. Bello. Ma piccolo, incerto, mal pagato. Un irritante standard, in questo Paese.

Oggi ho incontrato in ufficio un uomo simpatico e del quale ho stima, che – quando ha saputo che ho una laurea in Lingue e Letterature Straniere conseguita col massimo dei voti – mi ha chiesto: “Ma quindi non è una laurea consona a trovarti un lavoro a tempo pieno e più stabile?”.

Gli ho risposto che “no, è il Paese che non sembra consono a ritagliarmi una nicchia a tempo pieno e vagamente stabile”.

Mi ha guardata con la comprensione che un uomo “realizzato” può avere solo se ha conservato un cuore, da qualche parte. Mi ha guardata rassegnato, impotente, irritato con qualcosa che aleggiava sopra le nostre teste. Uno sguardo che in parte mi ha fatto stare malissimo, perché non aveva risposte, e in parte mi ha dato speranza: perché importa ancora a qualcuno.

Era la fine di una giornata iniziata già con questi pensieri.

Conduco un programma radiofonico. Il programma si chiama “Forse non tutti sanno che…”, e in teoria dovrei riuscire a dare il buongiorno a chi sta ascoltando la radio alle nove del mattino. Gli racconto le buone notizie che possono sfuggire, le curiosità che le prime pagine ignorano.

Ma oggi non me la sono sentita di iniziare scovando una buona notizia per rassicurare gli ascoltatori.

Oggi ho iniziato così.

Forse non tutti sanno che ci sono cose che vorremmo non fossero sempre in prima pagina; come le vicende di Gianfranco Fini, che oramai sono il pane quotidiano della prima de “Il Giornale”, anche quando la camorra ammazza un sindaco che aveva alzato la testa.

Se in prima pagina ci finiscono Fini, Berlusconi, Vendola, il partito della pagnotta e i furbetti del quartierino, va a finire che davvero “non tutti sanno che” sotto la prima pagina c’è un paese che si muove.

E che muore.

Avrei voluto darvi un buongiorno diverso, oggi. Fa fresco, ma c’è un po’ di sole, qui in città. Esiste ancora la mezza stagione, insomma.

Ma non riesco ad essere troppo entusiasta perché ieri mi è capitata sotto al naso una notizia orribile. Col nasone che mi ritrovo io, è facile. Ma se avessi voluto cercarla, non l’avrei trovata. E dire che per mestiere cerco notizie che normalmente sfuggono.

Se non mi fosse capitato sotto al naso, tramite un link, non avrei mai saputo che un dottorando ventisettenne si è buttato dal settimo piano della Facoltà di Filosofia presso cui stava conseguendo il dottorato.

Gli avevano più volte detto che non avrebbe avuto futuro.

E lui non ce l’ha fatta.

Perché probabilmente ha capito che è vero. Ha capito che farsi strada in un Paese in cui ti si dice “stai tranquillo, ti assumerò fra otto anni”, è dura. Ancora più dura quando in quello stesso Paese i ricercatori che protestano per una riforma agghiacciante vengono “sostituiti” da altri che non hanno ragione di scioperare.

Lo dicevo con alcuni amici parlandone ieri sera; saltare tutti quanti da quella finestra, equivale a lasciare che le cose peggiorino.

E che il futuro diventi una roba del passato che non serve più a nessuno.

Ma se il futuro non funziona, proviamo con l’imperativo.

martedì 31 agosto 2010

L'estate sta finendo. L'involuzione anche.

L’autunno inizierà tra una ventina di giorni, ufficialmente.
Ma molte persone inizieranno proprio in questi giorni le loro ferie. “Mortacci, il periodo migliore!”. Ormai settembre è questo. Prima era l’inizio della fine, l’inizio della routine. Ora è mortacci-il-periodo-migliore.
Fa ancora caldo, ovviamente. Perché non esiste più la mezza stagione. Al punto tale che c’è chi prende il peggio possibile da tutte le stagioni e si prende il raffreddore e i colpi di calore nella stessa settimana (sì, stralci di vita reale).
Tuttavia, possiamo dire che il peggio è passato.
Non amo l’estate. Per il clima e per tutti i disguidi che ne conseguono (tra questi anche l’aumento esponenziale di tette e culi mostrati durante “Studio aperto”. E se pensate che occupano già tutto il “tg” anche nel resto dell’anno, immaginate bene come d’estate sia necessario fare edizioni straordinarie per aumentare la dose.).
Il disguido maggiore di tutti, però, è la capacità umana di cancellare con un colpo di spugna millenni e millenni di evoluzione.
Ogni anno rimango basita di fronte alla facilità con cui si dimentica tutto quello che faticosamente abbiamo raggiunto nei millenni e lo si mette da parte “per riposarsi”.
Riposarsi?! D’accordo, procediamo con ordine.
L’evoluzione è una serie di successive, progressive e ordinate trasformazioni
. In genere volte a migliorare rispetto allo status precedente.
Non capisco perché, tutto questo - d’estate - si svolge al contrario.
Involuzione.
Millenni per arrivare dalla caverna, alla capanna, alla baracca, alla casa piena di spifferi, fino all’appartamento refrigerato d’estate/riscaldato d’inverno, protetto dal sole e dall’afa.
La pratica estiva invece vuole che ci si privi del tetto sulla testa e ci si ripari al massimo sotto un ombrellone (che non mi pare avere montato un condizionatore). Si rinuncia al frigorifero, alla possibilità di essere lontani al massimo un metro e mezzo da una caterva di granite.
Si rinuncia alla possibilità di stare a mollo in acqua pulita e profumata, per stare invece a mollo in acqua salata e molto probabilmente arricchita di piscio altrui. Perché dimenticavo di aggiungere che si rinuncia anche alla comodità di avere una toilette vicina al massimo qualche metro. Tornando così allo stato pre-latrina dell’evoluzione.
Ci si atteggia a pesci. Quando invece ci abbiamo messo svariati mucchi di tempo a diventare creature terrestri.
Non siamo pesci. Siamo umani.
Gli umani vivono dentro le case (o almeno ci provano), si procurano strumenti quali frigorifero, condizionatore, granite, per fronteggiare meglio il caldo.
Io allora proprio non capisco il pane e frittata mangiato sotto l’ombrellone. L’insalata di pomodori morti (perché con 45 gradi all’ombra, anche nel miglior frigorifero Giostile, i pomodori prendono un’aria morta). Il mal di testa da sole, chiasso, vento.
I bambini che, lasciati allo stato brado, scavano tunnel e gridano. A turno. Gridano a turno in modo da assicurare la copertura di disturbo necessaria per l’intera giornata. “Ma sì, siamo al mare, lasciamoli giocare”. Siamo al mare, ma siamo in una sorta di accozzaglia di esseri umani che con il tempo e l’evoluzione abbiamo imparato a definire società…dando ad essa regole tipo, toh!, non far strillare i tuoi pargoli come aquilotti castrati.
Non capisco gli stabilimenti balneari senza wi-fi. Le persone che si rotolano al sole come fanno i wurstel durante le grigliate.
L’amplificarsi dei difetti che tutti ci portiamo dalla città. Chi strilla a casa sua, in spiaggia strilla più forte. Chi non ha rispetto per il lavoro altrui in ufficio, in spiaggia umilia chi cerca solo di vendergli una collana. Chi in città lascia scivolare il fazzolettino di carta dalle mani dopo averci messo dentro le sue belle pepite, in spiaggia dimentica accidentalmente i fogli di carta oleata dei panzerotti del pranzo.
È un mio limite; forse è un limite della mia personale evoluzione, non capire perché certi progressi vengano cancellati in nome del riposo
.
Io in spiaggia non mi riposo.

Io sono nel 2010.
E mi riposo quando posso sfruttare tutto quello che il secolo mi offre.

A cominciare dalle granite.

lunedì 9 agosto 2010

Lillo & Greg: Supereroi senza regole

Claudio “Greg” Gregori è “quello con gli occhiali”, Pasquale “Lillo” Petrolo è “quello basso”. In realtà lo si potrebbe distinguere da Greg come “quello senza occhiali”. Ma la vita è fatta male, si sa.
Sono riuscita ad incontrarli qualche mese fa, circa un’ora
prima che andassero in scena in un teatro barese con il loro spettacolo Sketch and Soda, affiancati da Chiara Sani (in sostituzione di Valentina Paoletti annunciata dalle locandine) e da Virginia Raffaele, che quella sera mi ha lasciato a bocca aperta col suo talento. Lo ammetto: prima di allora non la conoscevo (posso aggiungere a mia inutile discolpa la frase del finto intellettuale medio? “Non guardo molto la televisione”…su questa e altre frasi di radical chicostanza scriveremo un capitolo a parte, un giorno).
E a proposito di tv, Lillo e Greg in tv ci vanno sempre meno. Anche loro sono entrati
nella squadra dell’ultimo show di Victoria Cabello, ma è sempre più difficile che il carrozzone catodico crei uno spazio per due attori bravi, con tempi comici formidabili e soprattutto divertenti senza bisogno di essere volgari, eccessivi, sguaiati. Gag sottili che corrono il rischio di non essere sempre capite completamente da tutti in ogni loro sfumatura. Insomma, un divertimento intelligente, che non viene a tirarti per la giacchetta urlandoti “Ridi, co****ne!”.
Mi metto diligentemente in fila dietro gli altri giornalisti, dopo essere arrivata sul luog
o tra mille imprevisti e peripezie (avrei imparato presto, nei mesi successivi, che “tra mille peripezie” è sinonimo di “come sempre”, in questo mestiere). Prima tra tutte, il registratore d’ordinanza che condivido con la mia collega, non mi è stato recapitato in tempo (a volte sembra che tutta la gente da intervistare venga scaricata da un pullman a Bari, tutta assieme), quindi devo aguzzare l’ingegno e il senso pratico e trovare una via alternativa. La qualità della registrazione non è ottima (a proposito: scusatemi!), ma mi permette di portare a casa il malloppo, in ogni caso.
Il tempo a nostra disposizione è stato davvero molto meno di quanto avrei voluto. E all’epoca dei fatti non avevo ancora imparato (e non l’ho fatto del tutto neppure ora) ad essere prepotente, infischiandomene delle occhiatacce degli addetti stampa e rubando minuti preziosi. E non per la semplice intervista in sé: è che mi stavo proprio divertendo.
Ecco , è il mio turno…

…“Eravamo io, Lillo e Greg su un palco”.
Greg mi fa un baciamano degno di un Manuale del Perfetto Gentiluomo. Lillo mi sorride e mi mette subito a mio agio. Nonostante la situazione non proprio “intima” (il palco di un teatro e i riflettori accesi), iniziamo subito a scherzare come se tutti e tre ci conoscessimo già da un bel po’ (vi risparmio il racconto di codesto cazzeggio, anche perché non rende per iscritto). Però forse è ora di iniziare l’intervista…anche se Lillo sembra ipnotizzato dalla grafica del software di registrazione dell’iPhone che sto usando.
L’audio lo trovate qui (“stupore” di Lillo e “prove tecniche” inclusi).

Mentre qui potete leggere la versione tagliuzzata (per ragioni di spazio, ahimé) e pubblicata sulla rivista Sushi, supplemento della testata editoriale di Controradio. Pagine 38 e 39.

martedì 27 luglio 2010

Anche le formiche, nel loro piccolo.

Twitter può essere utile. È così, infatti, che mi è arrivato questo video (grazie a @dougcoupland).


Sono rimasta un po' scossa dall'architettura nascosta del formicaio. L'equivalente "formichesco" della Grande Muraglia. E senza un architetto, senza progetti disegnati, senza ruspe, senza casse di birra e panini di mortadella nelle pause pranzo.
Senza alcuna prospettiva di gloria. Nessuna.
Le formiche lo fanno perché è utile e perché va fatto. Avete mai visto la foto di una formica appesa fuori da un formicaio con sotto la scritta "Impiegato del mese"? No, e non la vedrete mai. Non solo perché sarebbe troppo piccola perché possiate accorgervene (anche se vi converrebbe forse prestare più attenzione alle cose piccole). Ma perché non è per essere ricompensate che le formiche lo fanno.
Non hanno i Piani per le Grandi Opere. Lo fanno perché serve. E fare qualcosa di utile, che migliora la loro vita e quella degli altri, è per loro probabilmente la più grande ricompensa.
Viva le formiche.

giovedì 15 luglio 2010

Biografilm Festival - Parte II (Nobody Expects the Spanish Inquisition!)

With audio clip (instructions below)

Arriva così il sabato in cui dovrei fare l’intervista al Signor Palin. Cerco di godermi il più possibile la mattinata, anche se continuo a pensare a intermittenza alla serie di possibili catastrofi che potrebbero capitare nel pomeriggio.

Come, ad esempio…

Le pile del registratore si scaricano e non trovo più quelle di riserva che mi sono portata (quattro, per la cronaca).

La batteria dell’iPhone che userò come secondo supporto di registrazione, si scarica.

Mi si secca la bocca e non ho nemmeno una goccia d’acqua a portata di mano.

Tossisco e non riesco a parlare.

Dimentico tutto l’inglese che so.

Riesco a fare a Michael Palin l’unica domanda al mondo che gli fa saltare i nervi e lui mi caccia via urlando.

Mi si rompe una gamba e non riesco ad andare alla Manifattura.

Eyjafjallajökull erutta di nuovo e Palin resta bloccato a Sheffield.

Io vengo rapita dagli alieni.

Michael Palin viene rapito dagli alieni.

Gli alieni impediscono a Palin di rilasciare interviste.

E così via.

Dopo aver pranzato in un grazioso locale tra i 38km di portici di cui è disseminata Bologna, torno in albergo per sistemare le domande da brava secchiona. Alieni permettendo, ovviamente. A volte, paradossalmente, è più facile intervistare qualcuno che non si conosce molto bene. Se intervisti uno che segui da sempre, ti sembra di sapere già quasi tutto e ti sembra che tutte le domande siano banali. Però il lato positivo è che quel quasi può essere un ottimo punto di partenza, e che hai delle domande che hai covato probabilmente per anni, e che probabilmente sai anche cosa non è il caso di chiedere. Insomma, lati positivi e meno positivi, come in tutto.

Ricevo una mail della Signorina Ufficio Stampa: “Cara Adele, l’intervista è anticipata di tre quarti d’ora rispetto al tuo appuntamento”.

Ricordate la scena de L’aereo più pazzo del mondo in cui lampeggia un’insegna con scritto “No panic”? A un certo punto l’aereo attraversa una turbolenza e su quella stessa insegna inizia a lampeggiare la scritta “Ok, panic”. Bene, quell’insegna è nel mio cervello.

Per fortuna sono addestrata a lavorare in condizioni di panico e a gestire gli imprevisti (sembra una frase da colloquio di lavoro…beh, se qualcuno leggendo volesse assumermi per un lavoro figo e ben pagato: parliamone.). Perciò arrivo alla Manifattura con il mio Compagno d’Avventura/Operatore addirittura in anticipo.

Ma sono comunque già nel pallone. Continuo a ripetergli “Oh, Michael Palin…”, imbambolata, ogni ventisei secondi circa. Che persona paziente.

Vedo arrivare un po’ delle persone e personalità ospiti di questo sabato al Biografilm. A un tratto arriva anche il rampante signore in sneakers, jeans e impeccabile camicia a maniche lunghe (nonostante il caldo atroce). Che strano vederlo fuori da uno schermo.

“Oh, Michael Palin!”

“Sì, Ade, ho capito…Michael Palin…aspettiamo qui e stai calma”

“Oooh! Michael Palin!”

“E sì, sì…stai buona, arriverà tra poco”

“Noooo! Quello! Lì! C’è lì Michael Palin!”.

Aspettiamo un tempo apparentemente infinito, prima che venga il mio turno di intervistarlo (eppure siamo soltanto in due, sulla scheda di oggi). La giornalista che mi precede gli porta via troppo tempo, lui ha più volte spiegato che vorrebbe tornare in albergo prima della serata dedicata a Peter Sellers.

Forse questa giornalista sta con gli alieni. E mi sta sabotando.

Nel frattempo, ho finalmente conosciuto di persona la Signorina Ufficio Stampa, Alice – una ragazza davvero gentile (le dovrei davvero offrire da bere!). E Alice, ora, sta facendo conoscenza con la parte feroce di me. La fisso come se volessi inchiodarle le mie parole nel cuore: “Alice. Io devo fare questa intervista.”

Lei mi sorride e mi dice di stare tranquilla. Il signor Palin mi guarda e sorride (ottimo: pensa già che io sia un po’ svitata…).

Mentre la parte feroce di me si è data da fare, finalmente la giornalista aliena ha terminato. E posso iniziare a balbettare davanti a uno dei pochissimi miti che mi sono concessa il lusso di avere nella vita.

Quando mio padre mi ha chiesto chi sia per me Michael Palin, gli ho risposto “Pa’, è un po’ come se un cattolico incontrasse il papa”.

Ho un registratore digitale e un iPhone, come dicevo, così li aziono, mi assicuro che registrino e intanto tengo il mio taccuino nell’altra mano. Tutto questo sembra divertire il signor Palin, che a questo punto deve pensare definitivamente che io sia un po’ svitata.

E io penso definitivamente che non sia una cosa totalmente brutta.

Così ci mettiamo comodi e iniziamo a chiacchierare, senza pensare troppo al tempo che abbiamo a disposizione. Gliel’ho detto, “sarà breve e non le farò del male”.

Iniziamo dalla sua passione per i viaggi: nel corso degli anni, è venuto fuori che lei non vuole fare il boscaiolo, ma vuole fare l’esploratore…

Oh beh, voglio fare anche l’esploratore, ma è un tantino pericoloso: potrei essere colpito da un albero…

Ma anche fare l’esploratore può essere pericoloso…

Già, è avventuroso, mi piace molto.

Come ha scoperto che le piaceva così tanto?

Volevo fare l’esploratore già da quando avevo nove anni. Leggevo i libri dei viaggiatori nel passaggio a Nord-Ovest, al Polo Sud, alla foce del Rio delle Amazzoni e pensavo “Com’è eccitante, è così diverso dalla vita che faccio qui a Sheffield”. Non c’erano molti posti in cui andare e l’idea di viaggiare mi attirava moltissimo, ma ci vollero molti anni prima che avessi la possibilità di viaggiare sul serio.

Come ha iniziato?

Andavo all’università e ho iniziato a scrivere, a lavorare poi con i Python e a fare film. Poi nel 1980 ho girato una serie per la BBC intitolata “Great Railway Journeys of the World”, un viaggio da Londra fino al Nord della Scozia, che andò molto bene. Otto anni dopo un regista mi disse che aveva visto il documentario e gli era piaciuto: non era in stile Python, non era buffo, non facevo lo scemo e mi chiese se mi sarebbe piaciuto fare Il giro del mondo in ottanta giorni, cioè ripercorrere le tappe del viaggio di Phileas Fogg senza prendere aerei e con una telecamera al seguito. Risposi subito di sì, e a metà viaggio mi accorsi che era la realizzazione del mio sogno d’infanzia. Ma è stata anche dura, e ho pensato di scrivere un libro su questa esperienza…è iniziato tutto così.

Cos’è che non manca mai nella sua valigia, e cosa invece dimentica ogni volta che viaggia?

Non dimentico mai un piccolo taccuino nero e una penna. Sono le cose più importanti, non mi importa se perdo tutto il resto, ma carta e penna sono vitali perché mi servono per prendere gli appunti su cui poi si basano i miei libri. E posso prendere appunti ovunque, al Polo Sud, nel mezzo delle Cascate Vittoria. Sono la mia vita, in viaggio. Invece dimentico sempre di portare con me una torcia. Quando sono in Inghilterra, basta premere un interruttore e c’è luce. Mentre se sei in Africa o sull’Himalaya, al tramonto piombi nel buio totale perché non ci sono luci elettriche, quindi ti serve una torcia. E io me ne dimentico sempre.

Cosa apprezza di più quando torna a casa dai suoi viaggi?

Cose banali come una tazza di tè, fatta nel modo in cui soltanto gli inglesi preparano il tè. Mi piace la routine. Quando si viaggia, tutto cambia continuamente e ci si deve adattare a varie condizioni – geografiche, fisiche, gastronomiche – mentre quando sei a casa puoi seguire un po’ di routine. A casa mia so esattamente qual è il posto del formaggio in frigo, so come prepararmi una buona tazza di caffè, e altre piccole cose del genere. E poi i giornali…sono drogato di giornali, e non sempre riesco a procurarmeli, quando sono in giro per il mondo. L’altra cosa che mi manca quando sono via sono i toast: sai, a noi inglesi piacciono molto e non è facile trovarli fatti bene. Sono sempre un po’ flosci, e non belli croccanti. Quindi toast, tè, giornali, routine: cose che non apprezzerei se restassi a casa tutto il tempo. Devi staccarti dalle cose che ami, in modo che quando torni le ami ancora di più. Mia moglie è d’accordo con questa teoria (ride, ndr).

Il Biografilm oggi celebra Peter Sellers. Bakshi, in Hollywood Party, dice “Non c’è niente come ridere”. Lei ha fatto ridere e sorridere tutto il mondo…ma cosa fa ridere Michael Palin?

La vita stessa. I Python nascono dall’osservazione. Rido di me stesso quando faccio errori, cosa che capita piuttosto spesso…rido della vita quotidiana, delle cose strane che succedono e che non ti aspetti…la vita e le sue idiosincrasie.

Uno dei marchi di fabbrica dei Monty Python è la satira. E la buona satira è un’arma molto forte, che i Python hanno usato molto bene. Siete mai finiti nei guai per i vostri sketch?

Con Life of Brian sì, è stata la cosa più controversa che abbiamo fatto. Se non ci fosse stato Gorge Harrison a finanziarci non ce l’avremmo mai fatta. Quando coloro che avrebbero dovuto produrre il film lessero il copione, si tirarono subito indietro. Quando poi il film è uscito, ci sono state proteste in varie parti del mondo. In America c’erano cattolici, ebrei, mormoni, battisti, quasi tutte le religioni protestavano fuori dai cinema. Siamo stati una forza di coesione tra le varie religioni, che si univano contro i Python. Però non siamo mai stati censurati in fase di scrittura: potevamo scrivere, e realizzare il nostro materiale. Soltanto dopo arrivavano gli eventuali problemi, come è successo anche in Italia, dove Life of Brian è arrivato quattordici anni dopo la sua realizzazione, il che equivale a una diversa forma di censura, in un certo senso. Non ci è stato mai impedito di scrivere qualcosa – però – e questo è abbastanza singolare, ma è stata una fortuna, perché ci ha dato la possibilità di aprire dei dibattiti, di discutere, una volta che avevamo realizzato qualcosa.

Il lavoro dei Python non è soltanto una delle cose più piacevoli del mondo, ma ha ancora il potere di farci fermare a riflettere. Questo significa che i Monty Python sono senza tempo oppure che certe cose della società non cambiano mai?

Penso che la gente cambi meno di quanto creda. Le circostanze cambiano. Al tempo dei Python non c’erano i cellulari, la gente non se ne andava in giro con le cuffie ad ascoltare musica per strada. Ma queste sono cose superficiali, l’essenza della gente non cambia. Ci sono ancora le persone pompose, che si comportano come se sapessero cosa è giusto e cosa no, ci sono i bulli, i presuntuosi, quelli che si uniscono a strane società, quelli che fanno giochi strani. La stravaganza umana è meravigliosa e c’è sempre. La dieta dei Monty Python era basata sull’eccentricità della gente, e credo che gli show dei Python piacciano ancora per questa ragione: non hanno una particolare connotazione temporale, ma si basano sulla bizzarria del genere umano. E poi perché ci sono sempre nuove persone al potere e nuove persone che ci dicono cosa fare e abbiamo bisogno di rinnovare lo spirito sovversivo che ci fa dire: “Perché dovremmo essere d’accordo con questa cosa? Perché stiamo lasciando che accada? Pensiamola diversamente”. E questa è una cosa che dovrebbe sempre andare avanti.

*****


Già, dovremmo rinnovare più spesso quello spirito che ci fa dire “ehi, aspetta un momento, non sono d’accordo”.

Quella stessa sera mi ritrovai in sala con il Signor Palin, il mio Compagno d’Avventura/Operatore e Charlie Kaufman. Mi sembrava di essere nell’incipit di una barzelletta. Di quelle che iniziano con un francese, un inglese, un americano...ancora più surreale è stato poi ritrovarmi in un pub (sempre sotto un portico…Bologna: una città, un portico) a bere birra al tavolo accanto a quello del Signor Palin, mentre guardavamo Usa-Inghilterra al maxischermo…ma, dopotutto, se non ti capita qualcosa di bizzarro o surreale in una serata dedicata a Peter Sellers, non so quando altro dovrebbe capitare.

Cose bizzarre e inaspettate, come tutto quel finesettimana. Come l’Inquisizione Spagnola.



Grazie ad Alice Boscardin (la "Signorina Ufficio Stampa") e a tutto lo staff del Biografilm Festival 2010.


Photo (c) 2010 Giuseppe Longo (MisBug) All Rights Reserved.


Per la Parte I clicca qui


Listen to the interview here. But keep in mind:

0:01 You can hear Mr. Palin’s laugh before the interview begins. He was laughing because I was recording the interview using a digital recorder AND an iPhone with a recording App, and I was making sure that they were both on and recording, and I was holding them both in one hand, while holding my notes in the other one. Maybe he thought I was a bit silly. Not “maybe”…for sure.

0:01-9:51 My English is normally much better than this. When I don’t speak to one of my myths, I have a better pronunciation and fluency.

4:50 I don’t know why I said routiiiiiine like that…and I don’t know how could I use the wrong tense some seconds after routiiiiine…I was totally shaking, even though Mr. Palin was so nice and kind and sweet.

9:51 The recording ends with a “I have a last re…”: well, I had a last request for Mr. Palin. And it was an autograph…I told Mr. Palin I have been waiting to meet him for ages, and he seemed flattered (even though he surely heard this kind of things so many times), and he wrote “Now you can stop waiting for Michael Palin!”. Sure, I can stop waiting, but I still can’t believe it.



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