domenica 31 ottobre 2010

Please, please, please...

L’importante, nella vita, non è essere perfetti, ma ammettere le proprie mancanze. E magari colmarle, appena ci si rende conto che di mancanze si tratta.
A un cert
o punto della mia vita, parliamo comunque di un bel mucchietto di anni fa, mi sono accorta che non conoscevo gli Smiths. Mi sono incamminata ai ripari (correre non è mai stato il mio forte), e ho iniziato a recuperare.
Non mi dilungherò in biografie o trattati sulla poetica della
band. Non fa per me, non ne sono capace. Dirò solo che dal momento in cui ho iniziato ad ascoltarli mi sono pentita di non averlo fatto da molto tempo prima. A saperlo prima…avrei avuto tante volte “le parole”. Rubandole alle loro “canzoncine”.
Le chiamo “canzoncine” perché alcune tra le più conosciute hanno una melodia spensierata…anche quando parlano di morte.
Non sono il gruppo migliore del mondo, sicuramente.

È solo che a volte dicono delle
cose. E quelle cose sono esattamente le cose che vorresti dire tu. Crude, magari un po’ banali, ma proprio per questo disarmanti e senza bisogno che gli si aggiunga altro.
Qualche tempo fa ho avuto il
piacere di assistere a un concerto di una tribute band degli Smiths. Dire “tribute band” e basta è sicuramente riduttivo; ma mi limiterò a dire che questi tizi sono davvero bravi.
Il concerto è stato bello…se no non starei qui a parlarne, vi pare? Vi sembro una che scrive un intero post per dire quanto le faccia schifo qualcosa? No! Secondo voi le file in posta che ruolo hanno? Smaltire ordinatamente i clienti? Bazzecole: servono a concedere a ciascun essere umano i 15 minuti di livore necessari a non commettere stragi. Si sfoga la rabbia lì, nella fila alla posta, e poi si può affrontare il mondo con calma.
P
rendete i più grandi serial killer o stragisti della storia: nessuno di loro faceva abbastanza la fila alla posta.
Charles Manson lasciava che ci andasse sempre la zia, per dire.
Ma torniamo agli Smiths e in particolare al concerto degli Hang the Dj (così si chiama la band di “tizi veramente molto bravi” di cui vi ho detto qualche rigo sopra).
Se fossi una giornalista musicale, di quelli fighi che snocciolano la scaletta di un concerto legando i vari pezzi tra loro con frasi bellissime, citazioni, battute e cotillons, potrei farvi capire quanto piacevole fosse la serata.
Ma non lo farò.
Dirò solo quello che mi ha fatto soffermare a riflettere, quella sera.
Il pubblico ballava, canticchiava, rideva…ci si divertiva, insomma. Ma tutti hanno cantato all’unisono due volte.
Entrambe le volte ho pensato che siamo davvero
stanchi, che vorremmo tanto che le cose funzionassero, una volta tanto; che continuiamo a sperare, a volte in modo disperato, aggrappandoci alla vita anche con le unghie, attaccandoci alla vita per non pensare che ci stiamo tutti attaccando al tram.
Please, please, please, let me get what I want this time
…mi guardavo attorno e vedevo tantissimi ragazzi e ragazze dai venti-e-qualcosa ai trenta-e-rotti anni chiedere in coro “per favore, lasciami avere ciò che voglio, stavolta”.
Poco dopo, There’s a light that never goes out, “c’è una luce che non si spegne mai”. “Portami fuori, stasera…non mi importa dove, voglio vedere gente, voglio vedere la vita”.
A volte le “canzoncine” degli Smiths dicono delle cose. E quelle cose sono esattamente le cose che vorresti dire tu. Crude, magari un po’ banali…se lo avessi saputo, avrei iniziato ad ascoltare gli Smiths molto tempo prima.

sabato 23 ottobre 2010

Di cui uno macchiato

Non sono sicuramente la prima a parlarne e non sarò neppure l’ultima.
E poi, a mia difesa, dico che il caffè è stato usato come metafora di vita un po’ per tutte le occasioni.
Immaginate dunque il seguente scenario: A, B e C sono al bar. A e B vogliono ordinare un caffè, mentre C vuole un caffè macchiato.
Si fa l’ordinazione al barista e a quel punto vi si svela davanti il vero nocciolo dell’umana specie.
L’umanità si divide in due grandi categorie. Quelli che cercano di
prendere il meglio dalla vita, e quelli che sono un po’ meno esuberanti, ma ben più pragmatici.
Voi direte “come può tutto ciò rivelarsi ai nostri occhi mentre ordiniamo un caffè al bar?”
E ve lo dico io. Innanzitutto i caffè son tre e non uno. Statemi attenti.

E poi il senso si dipana all’atto dell’appuntar l’ordinazione da parte del barista.

Molti diranno: “Tre caffè, di cui uno macchiato.”

Altri però diranno: “Due caffè normali, più uno macchiato.

Sì, è una sottile parafrasi del
bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ma è molto più precisa, come metafora di vita.

L’uomo di cui uno macchiato è una persona cauta, che valuta le cose con occhio pratico e mette da parte quanto più possibile per i periodi di magra (come avrete già intuito, più che somigliare solo al bicchiere mezzo vuoto, assomiglia anche alla storia della formica). Non è un pessimista di quelli deprimenti; semplicemente, ci va piano. Se state stabilendo una relazione con una persona di cui uno macchiato, la riconoscerete dal suo modo cauto di allungare un braccio per cingervi al cinema, o dalla sua titubanza prima di invitarvi a salire a casa sua per un drink. Se conoscete una persona di cui uno macchiato, probabilmente ha tra i suoi modi di dire preferiti “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Non è tirchio, ma preferisce aspettare i saldi per comprare qualcosa che gli piace particolarmente.
Valuta la vita come un insieme di tre caffè, di cui uno macchiato. Ma i caffè son tre. Non ce ne saranno altri. Di quei tre caffè, il barista valuta che uno, uno solo di essi, è macchiato. E non c’è altro. Questo è quanto ti concede la vita, usalo con parsimonia.

L’uomo più uno macchiato, invece, è vagamente ottimista. È quello che userebbe “Always look on the bright side of life” come colonna sonora della propria vita. Sa benissimo come stanno le cose, attenzione: non è uno sprovveduto, né tantomeno un discendente di quell’odiosa Pollyanna che – per inciso – secondo me si drogava; non si spiegano tanto perenne ottimismo e felicità, se no. Ma non divaghiamo, torniamo all’uomo più uno macchiato. Non è uno sprovveduto, dicevo, sa benissimo come stanno le cose, però cerca di guardarle da una prospettiva più rosea. Magari è conscio di non guadagnare molti soldi, però se vede qualcosa che gli piace, la compra senza pensarci troppo. Ha le mani un po’ bucate, e tende a pensare che a tutto ci sia una soluzione. Se conoscete una persona più uno macchiato, probabilmente ha tra i suoi modi di dire preferiti “Solo alla morte non c’è rimedio”. Valuta la vita come un insieme di tre caffè, ma questo insieme lo scorpora, così gli sembra di avere di più. Sono tre, è vero. Ma due sono normali, in più ce n’è uno macchiato.

Ciascuno di noi può essere di cui uno macchiato un giorno e più uno macchiato il giorno dopo: si tratta solo di un modo di vedere la vita e affrontare le sue sfide quotidiane.

Di cui uno macchiato e più uno macchiato.

lunedì 4 ottobre 2010

Toccare il fondo...con un dito (sul telecomando).

Questo non è un blog di politica. Sto per scrivere di un momento della mia vita in cui mi sono un po’ spaventata. E mi sono vista costretta a riflettere. Mio malgrado, anche di politica, in qualche modo. Ma più che altro di informazione, di informazione deviata e di capacità di giudizio. E della responsabilità enorme che hanno i lettori/spettatori di recuperare la propria capacità di giudizio di fronte a una informazione impazzita, almeno in parte.

C’è sempre un momento, durante un periodo di difficoltà, in cui ci si acco
rge che si è toccato il fondo.
Può essere il moment
o in cui si ha così bisogno di cibo che ci si ritrova a mangiare roba scaduta. Può essere il momento in cui ci si porta a letto una persona orribile e al mattino poi ci si chiede “ma che diamine ho fatto”. Insomma, c’è un momento che poi diventa un aneddoto che si racconta iniziando la storia con “ho capito che avevo toccato il fondo quando…”.
Ho capito che ave
vo toccato il fondo quando ho detto “E c’ha ragione” a proposito di una dichiarazione di Silvio Berlusconi.
C’è davvero qualcosa che non va nel mio Paese, se arrivo a dire una cosa del genere.
Stavo commettendo il fatale errore di guardare un tg.
In questo modo mi rendo conto che il dibattito politico si è spostato da una cosa serissima come la cucina Scavolini di Montecarlo a una cosa altrettanto seria: una barzelletta. Viene trasmesso un servizio a proposito della suddetta storiella, raccontata in un contesto privato (per quanto possa essere privata la visita di un capo di governo che dopo gli impegni ufficiali si trattiene a chiacchierare con alcune persone presenti all’incontro) e ripresa con un telefono cellulare (non dalle telecamere dei
giornalisti, non presenti in quel particolare momento).
Dopo il servizio sulla barzelletta, il giornalista annuncia che ci sono state numerose indignate reazioni alla cosa. Parte un altro servizio in cui è raccolta circa una decina di pareri sulla questione. Condanne, sostanzialmente.

In tutto, questo argomento occupa una decina di minuti del tg.

Poi si passa alla nota relativa al commento del protagonista della vicenda: Silvio Berlusconi. Il quale dichiara che n
on è da colpevolizzare la storiella, ma chi ha filmato e reso pubblico un momento privato. E chi, in seguito, strumentalizza questo episodio per accusare la figura di Berlusconi.
È stato qui che ho detto “c’ha ragione”. Sicuramente i motivi per cui ha
detto quelle cose sono diversi dai motivi per cui di fondo condivido le parole che ha usato. Sicuramente le sue intenzioni sono diverse dalle mie. In realtà non “c’ha ragione” per niente, è solo una coincidenza che abbia usato parole che possano assumere anche un significato ragionevole (che di certo non intendeva veicolare).
Ho toccato il fondo, ma non mi sono mica rimbambita.

Condivido le parole, e solo quelle, in realtà. Oggettivamente è vero che è da colpevolizzare chi ha ripreso e diffuso un momento di vita privata di un personaggio pubblico senza la sua autorizzazione (coraggio: chi non ha mai fatto una battuta, anche molto colorita, anche fuori luogo, anche blasfema, su una collega un po’ bruttina?). E soprattutto, oggettivamente è da criticare di più chi poi usa una barzelletta per dire che “Silvio Berlusconi non
è degno di governare questo Paese”.
Quest’uomo davvero non è degno di governare il Paese soltanto in virtù di cose come una barzelletta di trenta secondi?

Serve che dica che Rosi Bindi è brutta? Serve che faccia le corna in una foto o che faccia “BU” ad Angela Merkel? I tg vogliono davvero concentrarsi su questo? Qualcuno, guardando, potrebbe davvero pensare “ma dai, lo stanno demonizzando per il suo c
arattere gioviale, quest’uomo”.
Punto.

Se non ci si va a cercare i motivi per cui davvero quest’uomo non è degno di governare il Paese, all’apparenza si vede solo una persona un po’ troppo esuberante e con un senso dell’umorismo a volte terribilmente fuori luogo. Punto.

Riprendere la propria
capacità di giudizio. Queste sono parole di Roberto Saviano che da giorni non mi tolgo dalla testa. Queste sono le parole che cerco di tenere sempre presenti quando guardo i tg, quando sfoglio i giornali, quando ascolto la radio.
Non bevo passivamente quindici minuti di tg dedicati a una barzelletta (una barzelletta!) e non bevo passivamente l’accostare un gesto incosciente come pubblicare immagini senza il consenso della persona coinvolta, al decreto sulle intercettazioni (sacrosanto strumento di indagine e di informazione, quando queste intercettazioni entrano a far parte delle carte processuali).

Il fatto che qualcuno si incazzi ancora per un’informazione deviata, per il rischio di insabbiare ciò che davvero dovrebbe farci urlare allo scandalo, forse è segno che dal fondo si può ancora risalire.

Il fatto che invece, quando viene fuori il fango vero, siamo ancora tutti qui seduti a parlare di barzellette o a guardarci l’ombelico, non mi fa ben sperare per niente.

Quello che succede in Italia è oltre le barzellette, le case a Montecarlo, le cucine Scavolini.

Bisogna aprire gli occhi.

Tenere sempre, sempre gli occhi aperti.

E riprendere la propria capacità di giudizio.
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