domenica 21 novembre 2010

Neglekt Film Festival 2010

Premetto che ho molto rispetto per le rassegne cinematografiche che puntano i riflettori sul cinema “di nicchia”, magari appartenente a Paesi che non sono noti certo per essere delle Mecca del cinema. Sono iniziative lodevoli, e come tali vanno incoraggiate. Dalle istituzioni e dal pubblico. Dico tutto questo senza alcuna ironia e da sincera appassionata di cinema.

Ma. C'è un "ma".
Non si è data, purtroppo, abbastanza visibilità ad un festival che è alla sua prima edizione e che promuove un cinema che fatica – inspiegabilmente – a trovare spazio nel panorama odierno.
Si tratta del Neglekt Film Festival.
Ecco i titoli che fanno parte della rassegna.

Orzata fredda a Machu picchu.
Maria e Frida costruiscono la loro amicizia attraverso piccoli gesti del quotidiano. Una lite tra le zie delle due ragazze le costringe a fuggire in un piccolo villaggio, dove passano le loro giornate sagomando mattoni di tufo e ricordando un passato mai vissuto. Sullo sfondo della vicenda, il Congresso del Perù del 2003, che stabilì che il 10% delle entrate raccolte per l'ingresso nel Parco archeologico di Machu Picchu sarebbe stato destinato alla municipalità di Machu Picchu.

Tanti colori, tutti grigi.
Vendere gioielli è un mestiere pericoloso, ma questa è la vita nei drive-in di Timisoara. Una storia difficile, ricca di colpi di scena, nello scenario duro di una città che fatica a risorgere dalle ceneri di un passato scomodo.

Esterno chiuso.
L’immortale capolavoro del maestro kazako – naturalizzato cecoslovacco – Sergey Drogbaneviznek, in edizione integrale con 45 minuti di contenuti inediti (con sottotitoli in tedesco).

Fanatici clochard.
Un pomeriggio in un salotto dell’alta società parigina. L’amore travagliato tra Franc, maniscalco, e Cosette, modella di stivali. La tremenda istitutrice Nadine che frena i progetti di ristrutturazione della villa della nonna di Franc. Le storie s’intrecciano, legate da un filo che nessuno ha il coraggio di denunciare.

Le favole di chi ha già.
Come separare ciò che è giusto da ciò che non lo è? Ciò che serve da ciò che è indispensabile? Un rappresentante di stoviglie s’interroga sul senso della vita, mentre fuori dai finestrini del suo treno si consuma la tragedia quotidiana di chi ha già scelto: i costruttori di muretti a secco del Turkmenistan e la loro eterna lotta per un trattamento equo sul lavoro, fuori dal cliché della loro stereotipata popolarità.

Come un kabuki al sole.
Tratto da un romanzo inedito di Anselma Vanvéra. In attesa che si risolvano le controversie legali relative alla pubblicazione del romanzo, il regista cileno Herman Llorca ha acquistato i diritti della storia direttamente dalla scrittrice.

Le api non mi amano più.
Margherita vive ad Aversa, dove ha una vita perfetta, fino al giorno in cui la vita segreta del suo compagno viene a bussare alla sua porta. Fugge a Berlino in autobus, arrivando in città nei giorni della caduta del muro: Franz sarà la sua guida e la aiuterà a fare i conti con la sua dismorfofobia.

Ci incontreremo crudi.
La vita può essere molto diversa, se si è costretti a guardare il mondo soltanto da una finestra. Una ballerina si rompe il tendine d’Achille in un incidente sul ghiaccio. Da quel momento decide di non uscire più di casa, e costruisce un mondo tutto suo, in compagnia dell’orso Carl e della mangusta Marko. Ma non sempre le creature immaginarie sono benevole…

Omettendo Pablo.
Cile, 1969. Marcel Oriega sta scrivendo la sua prima raccolta di poemi politici, ma gli ostacoli che poi hanno fatto la sua storia daranno un nuovo corso a tutta la sua opera. Il film è stato scritto con la consulenza di Lucia Oriega, vedova del poeta.

Nel corso del Festival verranno presentati anche i cortometraggi di autori emergenti
Altrimenti la Palestina, Non sapevo fosse tuo e Così come aveva chiesto Alfredo.

Grazie a Giuseppe Longo per la preziosa collaborazione nella raccolta del materiale. Per ulteriori informazioni sul Neglekt Film Festival, cliccare qui.

lunedì 15 novembre 2010

Domenica è sempre domenica

“I don’t like mondays”…si fa presto a dire che il lunedì è brutto. Ci si deve alzare presto dopo un paio di giorni di sonno extra, si devono di nuovo affrontare il lavoro (o l’università) e tutte le grane quotidiane che sembrano sospese nel weekend. Quasi odiamo l’immagine di noi stessi che andiamo via dall’ufficio venerdì, tutti sorridenti. Diciamo a quell’immagine: “Che cacchio ridi! Ora devo fare io il lavoro che tu hai lasciato in sospeso venerdì!”.
“I don’t like mondays”: hai scoperto l’acqua calda, Bob.

Della domenica pomeriggio, invece, si parla poco.

Tutto scorre più o meno
tranquillamente fino a poco dopo il pranzo: d’altra parte, è un po’ difficile deprimersi davanti al ragù. Ma dopo, mentre Massimo Giletti sciorina una perla di buonismo a caso, Barbara D’Urso inarca le sopracciglia in una “v” rovesciata di michelangiolesca pietà catodica e Simona Ventura cerca di essere espressiva nonostante il botox, allora tutto lentamente cala. Indipendentemente dalla tv, tramonta il sole sul giubilo del weekend.
Se è stato tutto piacevole, allora di domenica pomeriggio arriv
a – spesso accompagnato dal sonoro “gong” di un’emicrania – il pensiero di ciò che c’è da fare l’indomani (e vorremmo proprio ucciderla, l’immagine di noi stessi che venerdì diciamo “ma sì, questo lo finisco lunedì”); la sensazione che si prova facendo i bagagli alla fine di una bella vacanza, ecco.
Se invece il weekend è andato male, iniziamo a deprimerci per tutto quello che è andato storto, per le cose che non siamo riusciti a fare e che ora è troppo tardi per fare: il tutto, spesso, accompagnato dal sonoro “gong” di un’emicrania.
Insomma, che sia andata bene o male, non c’è scampo da questa patina di tristezza e dal sonoro “gong” dell’emicrania.

Il rimuginare su quanto accaduto (nel bene e nel male) durante il weekend e i pensieri su tutto quello a cui abbiamo detto “ciao ciao” il venerdì, si mescolano in un pasticcio fatale, che toglie il buonumore.

Cerchiamo di far qualcosa comunque: cinema, birra, libri…ma continuiamo a pensare “non è come dovrebbe essere”.

Recenti studi hanno proposto soluzioni a questa piaga dell’umanità.
L’invenzione del “domedì”, una specie di area di decompressione tra la domenica e il lunedì, che permetta di non esser travolti dal pensiero della nuova settimana, in
modo che non ci si rovini la domenica.
O un sistema di letargo, che ci faccia andare a letto per la pennichella post-prandiale di domenica e ci faccia risvegliare senza preavviso il lunedì, costringendoci ad affrontare tutto di petto, senza aver modo di rattristarci prima.

O ancora un sistema di repliche. Di domenica pomeriggio si potrebbe replicare l’aria di leggerezza e buonumore del sabato.

In attesa che la scienza si occupi di questa serissima questione, non ci resta che stringere i denti e resistere fino al prossimo venerdì, magari lasciando un po’ meno cose da fare in sospeso, per amore di quell’io del lunedì, già tanto provato dalla patina di tristezza della domenica…e dal sonoro “gong” dell’emicrania, ovviamente.
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