domenica 16 dicembre 2012

When anger shows

Il vostro dio, se ne avete uno, vi preservi dal folle spettacolo della rabbia di chi non si arrabbia mai.
Più pericolosa di un bambino con un machete in mano è la rabbia di chi non si arrabbia mai.
"Mai", in fondo, è una parola stupida. Perché non esiste chi non si arrabbia veramente mai. C’è sempre, prima o poi, il momento in cui succede.
E chi non si arrabbia mai non se ne accorge; la rabbia si mischia con altri pensieri, altre preoccupazioni, dentro giorni di autobus troppo pieni, persone troppo scortesi, vita troppo precaria, mani troppo fredde, panni stesi in casa perché fuori piove, è buio, nevica, è umido, quell’umido – signora mia – che ti entra nelle ossa. Così fa la rabbia di chi non s’arrabbia mai. Si infila nelle ossa, e manda ogni tanto delle fitte. E chi non s’arrabbia mai non le riconosce, perché – giustappunto – non è successo mai. Dunque le ignora, quelle fitte, commettendo il più grande degli errori.
Così la rabbia cresce, monta dall’interno, finché non c’è più spazio.
E a quel punto la rabbia – oscena, gonfia, e livida – spacca le ossa, e le schegge finiscono ovunque: dentro lo stomaco, dentro la testa, dentro i polmoni, che non funzionano più, dentro le gambe, che non si riescono più a muovere; le schegge finiscono persino nel naso.
Si diventa mostri tumefatti, pericolosi, ma non cattivi: perché chi non si arrabbia mai vuole disperatamente essere curato, ché quando si arrabbia pensa di morirne.


 

It creeps all over you like a dull ache
Think of all the things your hands could make
It pulls you to the ground like soaking wet gloves
The change in your face when anger shows

Eccetera.

domenica 25 novembre 2012

Le conseguenze dell'insonnia - Cannella prête-à-porter

C'è qualcosa di sbagliato, nella domenica; ne abbiamo parlato già, quindi siamo pragmatici e vediamo di salvarci. Capita che ti svegli male, perché hai dormito male, perché qualcuno si sta dormendo le tue ore di sonno al posto tuo, e tu rimani senza, a fissare lo spiraglio di luce grigiastra che arriva dalle persiane, sperando non diventi bianca troppo presto, sperando che - mentre ancora è buio - Morfeo arrivi e ti prenda con sé. Giorni interi a combattere contro una pseudo-narcolessia, e poi all'improvviso lei torna: l'insonnia di cui non avevi affatto sentito la mancanza. 



La privazione del sonno si ripercuote anche nella vita diurna. Senti il corpo consumato, come un tronco d'albero rosicchiato ai lati da un castoro, e capisci bene che reggersi in piedi non è semplice. Ti senti derubato, perché quelle ore dovevi passarle a dormire, e durante il giorno non pensi ad altro che tornare a letto e affrontare di nuovo la sfida, e vincere, accidenti, riuscire a chiudere gli occhi per più di una manciata di minuti. Senti la testa affollata da un costante brusìo: quello delle voci che hanno iniziato a parlare al buio e che ancora non smettono di blaterare; e quello del rumore di fondo del tuo stesso stordimento.
E allora è ovvio che ti alzi male, già arreso a tutto. Già stanco di ogni tipo di azione e interazione, e per fortuna almeno oggi non si lavora. Servirebbe un dolce, ma la sola idea di setacciare la farina ti stanca.

(Sì, ho messo lo zucchero cannellato anche sullo yogurt.)
Ma il dolce lo fai lo stesso, perché non ti va di arrenderti, non ti va di far vincere il lato oscuro, Luke, però non ti va nemmeno di pesare, setacciare, amalgamare, dosare.
Prendi delle fette di pane al latte - quello per i tramezzini - e le appiattisci un po' col matterello; poi spennelli del burro fuso su entrambi i lati, e cospargi uno dei due con una miscela di zucchero e cannella. Fai dei rotolini, ci metti su altro zucchero cannellato, e inforni per qualche minuto.
Pucciati nello yogurt, col contrasto caldo-freddo e dolce-acido, sono ancora più buoni.
Se solo Morfeo si lasciasse sedurre dai dolcetti.

sabato 29 settembre 2012

Cedro (quasi)


Non sempre si può prevedere quando ci si sentirà pronti a superare i propri limiti. Non sempre si può prevedere quali saranno le conseguenze di questa operazione, né quali limiti si riusciranno a superare e quali no.
Fatto sta che ogni tanto succede: prendi una tua debolezza, la guardi dritto negli occhi e l'affronti. Rendendoti conto che ce la puoi fare, e le conseguenze possono essere anche positive. Non vi sto a raccontare, ma fidatevi: ogni tanto, fate una cernita delle cose che proprio non riuscite a superare, fatevi coraggio, e impegnatevi a farcela. Spesso - prodigio! - ce la si fa. Potete scegliere di cominciare con limiti più piccoli, più facili, e poi affrontare via via le cose più grandi.
Paolo Limiti, testimonial del superamento dei propri limiti dal 1936 (nessuno ha ancora superato, invece, i traumi provocati dalle sue cravatte).
Per uno strano caso della vita, i limiti grandi e piccoli che ho superato di recente hanno a che fare con la cedrata, nettare dorato degli dei, a cui ho colpevolmente detto di no per troppi anni (ecco un piccolo limite che ho superato: assaggiandola, semplicemente, e amandola, subito).
E allora volevo procurarmi dei cedri, perché se la cedrata è così buona, figuriamoci quanto dev'essere buono l'agrume, pensavo. E intanto pensavo anche a quanti altri blocchi ho superato da quando, matricola universitaria, mi sono affacciata al mondo. Quando, per molto, troppo tempo, mi sono nutrita solo di spaghetti al tonno perché erano la cosa più veloce e facile da preparare, ed erano buoni: cielo, se erano buoni! Ma li ho mangiati così spesso che poi, per un sacco di tempo, non ne ho voluto più sapere, né di spaghetti, né di tonno.
Avrei voluto unire questi due pensieri, oggi, preparando degli spaghetti al filetto di tonno e zesta di cedro.
Ma voi non potete capire quant'è difficile trovare dei cedri a settembre. Sul serio, ho trovato il Graal, i due liocorni, i droidi-che-stiamo-cercando, e ho pure incontrato Carmen Sandiego. Ma di cedri, nemmeno l'ombra. Alla fine, un'adorabile fruttivendola (Via Cardassi, sessanta e qualcosa, Bari) mi ha spiegato che non è proprio stagione. Fa niente che tutti vendevano frutta di serra e di dubbia provenienza tipo gli gnollofossi della Papua Nuova Guinea. Puoi avere anche le puffbacche, ma oggi non avrai cedri.

Qui ci andava la foto del cedro. Ci scusiamo per l'inconveniente, il post riprenderà al più presto possibile.



Quante cose al mondo puoi fare.

E allora si fa un altro sforzo: si affronta il piano B.
Il filetto di tonno l'ho tagliato a cubetti che ho poi passato nei semi di sesamo e saltato in padella con olio caldo (il tempo di dire "Ma guarda che carini questi semini di sesamo che restano attaccati ai cubetti di filetto di tonno!"). Li ho messi da parte, e nella stessa padella ho fatto cuocere per tre o quattro minuti dei pomodorini ciliegino tagliati in quattro parti. Ho aggiunto un po' di zucchero, per farli caramellare leggermente. Poi, mentre gli spaghetti erano in cottura, ho salato i pomodorini, spento il fuoco e unito i cubetti di tonno che avevo tenuto da parte. Ho scolato gli spaghetti al dente e li ho messi in padella (su fuoco vivace) a fare amicizia col condimento. Non male, ma chissà che la versione (totalmente diversa) col cedro non sia ancora più buona. Godere il momento: ecco un'altra cosa difficile. Ma si può imparare pure questo. Ho messo da parte i chissà, ho stappato una Tassoni, e non ci ho pensato più.

martedì 29 maggio 2012

Rialzarsi col Parmigiano caduto

La torre dell'orologio di Finale Emilia
Lo so che è una cosa naturale. Le placche si spostano, si scontrano e il pianeta cambia aspetto. Faccio schifo in geografia, ma fin qui ci arrivo anch'io. Il fatto è che quando ci cammini, ci corri, ti ci sdrai, sulla terra, ti sembra più naturale che lei stia ferma e sia tu a muoverti.
Il terremoto mi terrorizza. È stato durante un terremoto che per la prima volta ho visto davvero la morte in faccia. Capii che non è vero che "vedi tutta la tua vita scorrere come un film"; non solo, almeno. Io, sempre come un film, ho visto la scena della mia morte: abbracciata a uno stipite, sepolta da casa mia assieme al cane. Perché la casa si scuoteva come se volesse scrollarmi via, e non finiva più, e io non sapevo nemmeno se stavo abbracciando il muro giusto, sapete: si fa presto a dire "portanti", ma quando ti balla la casa attorno, l'istinto non sempre funziona. Ti viene addirittura voglia di prendere le scale e uscire, ma poi in un nanosecondo ti ricordi che è sbagliato, e cerchi un tavolo sotto cui ripararti, o un muro, il famoso muro portante, che non dovrebbe crollare, o che comunque dovrebbe farti da riparo qualora crollasse tutto il resto.

E aspetti che passi. E non passa più. Il rumore non assomiglia a nient'altro; non assomiglia a un aereo, né a un tuono, né a una bomba. Se proprio deve somigliare a qualcosa, ricorda il rumore della pancia quando si ha molta fame, ovattato e amplificato milioni di volte. Il suono del ventre della Terra. Senti quel rumore, e alzi subito gli occhi verso un lampadario, che inizia a muoversi, e allora tu corri. E aspetti che passi. E non passa più.
Per giorni, al di là delle scosse d'assestamento vere, continui a sentire la terra muoversi sotto i piedi.
Lo so che è una cosa naturale. So anche che non è il terremoto a uccidere, ma le case costruite male. Io ho paura della terra che si muove sotto i piedi, sì, ma ho molta più paura quando succede mentre sono in una casa che non so come è stata tirata su.
Tante se ne stanno rovinando di case, in questi giorni, in una zona che ai terremoti nemmeno è abituata ("abituarsi" è una parola davvero impropria). Oltre alle case, e alle chiese, si stanno rovinando anche le fabbriche.

Le scalere di Parmigiano Reggiano cadute a causa del terremoto
Tra queste, anche alcuni stabilimenti che producono cibo, come quelli per la stagionatura del Parmigiano Reggiano.
Tra i modi per aiutare le persone colpite dal terremoto c'è anche questo, quindi: comprare il loro cibo, il frutto del loro lavoro, per far sì che abbiano modo di rimettersi in piedi al più presto. Il coordinamento di quest'operazione è affidato a Coldiretti, trovate qui tutte le informazioni.
Sappiate che il Parmigiano può essere usato in tantissime preparazioni (qui una). Oggi, d'impulso, ne ho comprato un bel po', come se potesse all'istante lenire il dolore di qualcuno a centinaia di chilometri di distanza. Se poi avete già una ciotola di formaggio grattugiato in frigo, consumatelo, per comprarne altro. Prendete una bella manciata di Parmigiano Reggiano grattugiato e distribuitela in una padella antiaderente calda, ricoprendone il fondo con uno strato non troppo sottile.
Un mini-cestino di Parmigiano con un assaggio di pasta
Si scioglierà, formando una specie di crespella; prendetela con una spatola (e fate attenzione, perché scotta più dell'interno dei pomodorini del risotto di Fantozzi) e velocemente poggiatela su una ciotola capovolta, ricoprendola del tutto e sagomando bene la crespella (di nuovo: attenzione a non scottarvi!).
Lasciatela lì a raffreddare. Intanto nella stessa padella poggiate della pancetta finché non diventa croccante, e tenetela da parte. E poi, sempre nella stessa padella (ormai ebbra del grasso del formaggio e della pancetta) fate saltare dei pomodorini spaccati in quattro. Nel frattempo avrete cotto dei fusilli, che salterete assieme ai pomodorini. Intanto la crespella di formaggio si è raffreddata: staccatela dalla ciotola. Sì, potete dire "voilà" ad alta voce: avete ottenuto un cestino fatto di formaggio: metteteci dentro la pasta, guarnite con la pancetta croccante e poi mangiatevi pure il cestino.
Mangiando non potrete salvare una vita (a meno che non sia il vostro mestiere, allora mangiando vi terrete in forma per farlo meglio), ma potete contribuire a salvare il lavoro di tante persone.

terremoto@coldiretti.it

domenica 13 maggio 2012

In cucina con Madre

Oggi è la Festa delle Madri, e quindi anche la festa di Madre. È stata lei a insegnarmi a cucinare. Quindi tutti questi post partoriti ai fornelli sono a causa di chi ha partorito me. A ben vedere, anche io stessa sono qui a causa sua. Quindi, sapete con chi prendervela, insomma. Avevo circa otto anni, quando ho imparato a cucinare la prima cosa, e ho capito che mi piaceva farlo. I panini, la crema al mascarpone per il tiramisù, erano cose che facevo anche prima degli otto anni, ma non contavano. Per me cucinare era mettersi ai fornelli e armeggiare in modo misterioso con pentole, padelle, e casseruole. Anche se non sapevo assolutamente la differenza tra pentole, padelle e casseruole.
Così, quando Madre decise che ero abbastanza grande da stare vicino al fuoco con la sua supervisione senza rischiare di dare fuoco a tutta la casa, stabilì che potevo imparare a preparare il risotto coi funghi.
Uno si aspetterebbe qualcosa di più semplice, come un uovo al tegamino, ma forse non tutti sanno che il risotto è più facile di un uovo al tegamino, anche perché non corri il rischio di schizzarti con l'olio caldo. E poi, a pensarci dopo tanti anni, penso che fosse una scelta tattica: ero molto irrequieta, al tempo, e così mettermi ai fornelli a preparare qualcosa come un risotto che va costantemente rimestato e tenuto sott'occhio era un ottimo modo per tenermi buona almeno una mezz'ora. Le madri sono scaltre.
Il brodo lo preparava lei, e preparava insieme a me i funghi trifolati: li facevamo cuocere in padella con un po' di prezzemolo tritato.
Io facevo soffriggere un po' di cipolla tritata in una pentola e poi ci mettevo a tostare il riso. Sfumavo con un po' di vino e, quando era evaporato, aggiungevo un po' di brodo, continuando a mescolare. Quando il brodo si asciugava, ne aggiungevo altro e continuavo a mescolare. Ho scoperto che si poteva anche non mescolare continuamente soltanto dopo una ventina d'anni. Scaltra, Madre, scaltra davvero.
Verso la fine della cottura del riso, aggiungevamo i funghi, portavamo a termine la cottura, e dopo che Madre spegneva il fornello, mantecavo il risotto con un po' di Parmigiano grattugiato.
Così è iniziato tutto.
Da allora ho imparato diverse cose, oltre al fatto che puoi anche non mescolare il risotto per tutto il tempo; tra queste, c'è fare il brodo da sola e trifolare roba per conto mio; ho imparato la differenza tra un risotto normale e uno all'onda, e altre cose che coi risotti non c'entrano. Ma Madre continua a essere fonte d'ispirazione, e non soltanto in cucina.
Così, per questo menu a tema "Madre", ho scelto come secondo l'ultima ricetta che le ho chiesto: quella dei fusi di pollo al pomodoro, perché me li prepara spesso quando torno a trovarla e sono così buoni che ogni volta le chiedo la ricetta, ma sistematicamente la dimentico dopo dieci minuti.
Le telefono qualche giorno fa per chiedergliela di nuovo.
"Ancora?"
"Eh, mi sono dimenticata come si fanno..."
"Ma è facile!"
"E lo so, ma metti che poi sbaglio qualcosa..."
"…"
"Vabbè, mi dici?"
"Allora, prendi i fusi di pollo..."
"Aspetta, ché devo scrivere!"
"..."
"Vai."
Sospira. Ride. Riprende, paziente. "Prendi i fusi di pollo..."
"Le cosce?"
"No! I fusi!"
"Eh, sono tipo cosce, no?"
"Sì, ma devi dire "fusi", se no ti danno un pezzo in più che a te non piace."
"Quindi tu mi stai dicendo che se passa una ragazza con delle belle gambe, per strada, la gente deve dire "Ammazza, che bei fusi"?"
Sospira di nuovo. "Esatto, "Che bei fusi". Scrivi. Fai rosolare i fusi in una padella antiaderente, senza olio, né burro, né niente..."
"Niente?!"
"Eh! Niente! Poi ci metti un po' di spezie, un po' di vino bianco, e fai evaporare…poi ci aggiungi i pomodori pelati, un po' di sale, e fai cuocere per una trentina di minuti a fuoco basso e possibilmente col coperchio."
"E basta?"
"Sì, tutto qua. Lasci a cuocere e non ci pensi più."
Le Madri hanno strani modi per dirti che ormai sei grande e non serve più incatenarti a un continuo rimestare per farti stare buona. E, nonostante questo, è bello sapere che quando hai bisogno di qualcosa, che sia una ricetta o altro, Madre c'è sempre, anche se glielo chiedi per la millesima volta.

sabato 28 aprile 2012

Il duca e la delfina

La mia delfina preferita, Maria Antonietta
Da sempre la Francia e l'Inghilterra sono in competizione. Per qualsiasi cosa: economia, letteratura, arte, e probabilmente se le danno di santa ragione pure negli spogliatoi dei campionati di curling.
Ma oggi noi metteremo insieme la Francia e l'Inghilterra. Nel piatto. E zitte tutt'e due.
Per la Francia, abbiamo le pommes dauphine. Si chiamano così perché sono dedicate alla delfina, che altri non è che la moglie dell'erede al trono di Francia: il delfino, appunto. 
Le patate dauphine sono una variante delle patate duchesse, con l'aggiunta di pasta choux all'impasto.
Bisogna lessare le patate e schiacciarle; poi si aggiungono sale, noce moscata, burro a tocchetti, uova e - volendo - Parmigiano. Le quantità devono essere regolate in modo tale che il risultato assomigli a un puré.
La pasta choux, invece, si fa così (a noi serve cruda, lasciate perdere la parte in cui la signora Giallozafferano spiega come cuocerla).



Unite il puré alla pasta choux; poi si possono fare sia dei bigné da cuocere in forno per 20 minuti a 190°, sia delle crocchettine da friggere in abbondante olio. 
Pommes dauphine, al forno e fritte
Il Duca di Wellington in un ritratto
di James Lonsdale del 1815:
indossa i "suoi" stivali
La parte inglese del pranzo è il filetto Wellington. Sì, come il duca di Wellington. Sì, quello che contribuì alla più grande sconfitta di Napoleone, nel 1815, che è diventata la sconfitta per antonomasia: Waterloo.
Si dice che il duca di Wellington (nato Arthur Wellesley) non fosse una buona forchetta, anzi, pare fosse proprio il tormento di molti cuochi che non ricevevano mai da lui alcuna soddisfazione. Ma un giorno gli fecero un filetto di manzo in crosta di pasta sfoglia con paté di funghi, prosciutto e senape inglese: quello sì, lo convinse. E il duca sembrava non voler mangiare altro. Un'altra leggenda, invece, racconta che il piatto - prima di essere fatto a fettine - assomigli molto a uno stivale Wellington. Sì, perché il duca ha dato il suo nome anche a degli stivali.
Sembra che il vecchio Arthur disse al suo calzolaio di fiducia di modificare i classici Hessian boots in voga al tempo. Il risultato fu un paio di stivali non molto adatti alla battaglia, ma perfetti come stivali da sera. Da allora quegli stivali portano il nome del duca.
Che sia per gli stivali, che sia perché non gli piaceva mangiare quasi niente, il filetto Wellington è diventato uno dei piatti forti della cucina inglese.
Si prende un filetto di manzo e lo si passa nell'olio d'oliva caldo, da tutti i lati, per sigillare la carne affinché resti tenera e non perda i suoi succhi. Poi si puliscono e si frullano i funghi; si passa la purea in padella senza aggiungere nulla, finché non perde tutta l'acqua.
Si stende un foglio di pellicola, lo si copre con uno strato di fette di prosciutto di Parma, ci si spalma su la purea di funghi e ci si poggia sopra la carne cosparsa di senape forte.
Si arrotola il tutto, lo si stringe bene nella pellicola, e lo si fa riposare una ventina di minuti in frigo.
Nel frattempo potete metter su un po' di musica. 


 

Dopo di che, si toglie la pellicola e si avvolge il filetto-prosciutto-purea nella pasta sfoglia, che cospargeremo poi con dell'uovo. Si cuoce, infine, in forno per una quarantina di minuti a 200 gradi. 

Uno che sul filetto Wellington (e non solo) la sa lunga è lui. 



Nota importante: IL MACELLAIO
Sembrerà ovvio, ma per il filetto Wellington è fondamentale il filetto.
Bisogna andare dal macellaio uno o due giorni prima e chiederglielo, affinché ce lo metta da parte, e non ci faccia trovare "Questo delizioso filetto a fettine, signorina", o non ci dica "Ma guardi che il lacerto è uguale". Perché no, signora mia, del filetto a fettine non me ne faccio niente e il lacerto non è affatto uguale. Se no si chiamava filetto.
La specie Macellaio è un concentrato dell'intera specie umana: ci sono alcuni buoni esemplari, ma tendenzialmente conviene non fidarsi mai troppo alla leggera.
Tu devi andare dal macellaio, guardarlo dritto in faccia e dirgli cosa vuoi. Anche se non lo sai veramente bene, tu devi fingere di saperne quanto lui, se no sei spacciato. E finisce che ti rifila 26 kg di fettine da fare panate. 


mercoledì 25 aprile 2012

La verità, vi prego, sulla Barbie - Barbie Pubblico Parlante


La vera storia, a puntate, dietro le Barbie di dubbia fattura.
Sono state messe sul mercato con un nome e una storia. Ma la verità è un'altra.
Sarò il Roberto Giacobbo dei vostri balocchi.

 

Voi la conoscete come Barbie Pink Modern, ma anche questa volta la verità è un’altra. Dovreste rendervene conto da soli, dalla sobrietà dell’outfit e dalla tonalità di biondo. Essa è Barbie Pubblico Parlante. Ne trovate diverse versioni in carne e ossa ammonticchiate sui gradini dell’arena di Uomini e Donne ogni pomeriggio dentro al vostro televisore. Sì, anche se l’avete pagato migliaia di paperdollari, dentro al vostro televisore c’è comunque Maria De Filippi.
Voi non lo sapete perché l’outfit attira tutta la vostra attenzione, ma Barbie Pubblico Parlante ha un tasto nascosto sul fianco; se lo pigiate, sentirete le espressioni tipiche del pubblico parlante di Uomini e Donne: “Falzo”, “Buggiardo”, “Mastaizzitta”, “Tu sei qui solo per le telecammere”, “No, cioè, ti prego, cioè, Maria ma stiamo scherzando”, “Posso parlare? Mi fai pa…mi fai parlare?”, e “Maria scusate!”.
Barbie Pubblico Parlante è dotata di borsa e occhiali finto-Gucci da tenere perennemente in testa in luogo di un più adatto frontino.
Maria De Filippi, bionda, e alcuni esemplari di Pubblico Parlante. Biondi.
I capelli color biondo punto 5 sono approvati dalla LFM (Lega dei Figuranti di Maria) a fedele riproduzione della tinta usata dalle signore Paola, Daniela e compagnia bella.
Barbie Pubblico Parlante ha le ginocchia snodate per sedere perfettamente sulle gradinate degli studi tv Mattel ed è dotata di una piccola pedana rosa che funge da amplificatore per le sue invettive.

sabato 14 aprile 2012

Amami, Alfredo

Alfredo di Lelio davanti al suo ristorante in Via della Scrofa a Roma.
Le fettuccine Alfredo.
Se pensate di avere nel piatto soltanto della pasta al burro e parmigiano, vi sbagliate. Perché le fettuccine Alfredo vengono da molto lontano, e parlano di due cose che sembrano molto lontane ma che troppo spesso si toccano: l'amore e la sofferenza.
L'amore è quello di Alfredo di Lelio per una moglie inappetente. La sofferenza è quella di entrambi: del corpo della signora di Lelio e del cuore di Alfredo nel vederla sfiorire.

Roma, 1914.
La signora Ines ha appena dato alla luce Armando (secondo altre versioni della storia, sarebbe incinta di Armando), e ha perso completamente l'appetito; è molto debole. Alfredo, proprietario di un bel ristorantino in Via della Scrofa, le prova tutte; ma nessuno dei suoi manicaretti riesce a sedurre la moglie. Preso dal più cupo sconforto, pensa di proporle un piatto semplice, ma potenziato; non delle semplici fettuccine al burro, ma delle fettuccine con molto burro (raddoppia la dose) e molto parmigiano, amalgamati in una sorta di crema. Un'idea semplice, ma evidentemente geniale: Ines finalmente ricomincia a mangiare; va matta per questo piatto, per la cremosità del condimento, per il sapore del burro e del formaggio, tanto da chiedere al marito di aggiungere le fettuccine al menu del ristorante.

Roma, 1927.
Douglas Fairbanks e Mary Pickford, star del cinema muto di Hollywood, sono in luna di miele a Roma. Si fermano a mangiare al ristorante di Alfredo e s'innamorano all'istante delle sue fettuccine, così come accade a George Rector, ristoratore di New York, che ne tesse le lodi nella sua rubrica sul Sunday Evening Post.

Alfredo doesn’t make fettuccine. He doesn’t cook it. He achieves it. […]Alfredo’s fettuccine is poetry. 
(Alfredo non fa le fettuccine. Non le cucina. Le ottiene. […] Le fettuccine di Alfredo sono poesia.)
È così che le fettuccine Alfredo sbarcano negli Stati Uniti e rendono il signor di Lelio famoso in tutto il mondo. 
Alfredo di Lelio

Amami quanto io amo le tue fettuccine...
Sono facili da preparare, il trucco è essere veloci.
Per 4 persone - Alfredo, Ines, Armando e noialtri.
200gr di burro
400gr di fettuccine all'uovo
200gr di Parmigiano grattugiato
3/4 di tazza di acqua di cottura della pasta

Mentre le fettuccine cuociono (attenzione, ci servono al dente), taglio il burro a tocchetti piccoli e lo metto in un grosso piatto, possibilmente caldo. Metto da parte l'acqua di cottura e, dopo aver scolato le fettuccine, le adagio sul burro, mettendoci su immediatamente anche il formaggio e un po' di acqua della pasta.
Continuo a girare, pensando a quanta speranza e quanto amore ci ha messo Alfredo la prima volta, per Ines, per suo figlio, perché - come diceva Elsa Morante - la frase d'amore più vera, l'unica, è "Hai mangiato?".
Intanto si è formata una crema profumatissima che abbraccia tutte le fettuccine. È pronto.
Una versione più veloce ancora prevede che si metta a scaldare in padella il burro insieme all'acqua della pasta e poi si facciano saltare le fettuccine nel liquido ottenuto, aggiungendo il formaggio e mantecando su fuoco medio-basso il tutto, finché non si forma la crema. Ci vogliono un paio di minuti. Il tempo di cantare un'aria d'opera.





 
 

giovedì 12 aprile 2012

La Puglia migliore

La Puglia migliore. Uno slogan a effetto che si infila dritto dritto in testa come un tormentone da Carosello, tipo "Bianco che più bianco non si può" e "Se ti piace la frutta, mangiatela tutta". Il prodotto, però, non è un detersivo, né un elisir per le vostre merendine: è una regione intera. Con il suo sole, il mare, il suo vento, il suo cibo, il suo vino, la sua creatività e i suoi talenti.
Così è iniziato tutto, più o meno (qualcuno di voi è già lì col ditino-Flanders a dirmi che non è iniziata esattamente così; ma dobbiamo semplificare, non possiamo passare la giornata a fare l'esegesi della moda pugliese). E per un bel po' tutto quello che era pugliese è stato il massimo. Tutti in Puglia a fare le vacanze, a mangiare, sposarsi, ballare, lavorare, e a fare tutte le cose elencate nel Gioca Jouer.
Adesso si continua a parlare di Puglia, ma qualcosa sta cambiando.
Stavolta non lo so da dove sia iniziato tutto quanto. Figuriamoci se riesco a capire perché. Fatto sta che la gente impazzisce ancora per la Puglia, ma nel frattempo anche la Puglia sta in qualche modo impazzendo. E per questa pregressa relazione d'amore folle con la nostra regione, un po' tutti si sentono in diritto di giocarci, con le nostre sciagure, puntandoci addosso i riflettori e i ditini-Flanders già citati qualche riga più su.
Un po' come quando incontri un personaggio famoso per strada e inizi a parlargli come se foste amici, facendoti anche una forchettata di fatti suoi, criticando le sue scelte come se dovesse darti delle spiegazioni. Insomma, avete capito la sensazione.
È più o meno da un mese che l'immagine forse troppo patinata e un pelino campata in aria della Puglia è un po' incrinata. Puglia che - per quanto meraviglia delle meraviglie - è una regione stupenda come altre in Italia. Che so, il Molise, se soltanto esso esistesse davvero e non fosse una mistificazione di certe sette massoniche uzbeke.
Forse è iniziata più o meno con l'affaire Degennaro-Emiliano-cozze pelose. Il dileggio dell'Italia. Toh, il sindaco di Bari si fa corrompere da una chilata di cozze. Terùn. La vicenda era ovviamente molto più complessa di così, e non si trattava di corruzione, e le cose in cui andare a scavare non erano le vasche piene di pesce del sindaco, ma le tasche di altra gente. Però alla fine sui giornali ci siamo finiti perché il signor Sindaco a Natale aveva la vasca piena di pesce ricevuto in dono.
Poi però la botta è arrivata sul serio: è arrivato il calciovergogna.
Calciatori, scommettitori, "tifosi" (e le virgolette sono d'obbligo), vari professionisti, coinvolti in un giro di compravendita delle partite del Bari calcio. No, la vicenda non è più complessa di così. Si tratta di stronzi che fanno mercato sulle emozioni della gente.
E ogni giorno, i tifosi veri subiscono un nuovo colpo. Spunta Mister X, quello che passava i soldi per comprare il risultato del derby Bari-Lecce (per intenderci: il derby Bari-Lecce è sentito cinque-sei volte in più rispetto a un normale derby). Poi spunta Mister Y, un altro che maneggiava soldi e truccava partite. Poi spunterà sicuramente Mister Z.
Un calciatore è finito in carcere perché ha ammesso che durante quella partita, la partita per cui i Tifosi si sono fatti un fegato tanto, ha segnato un autogol di proposito, per fare in modo che il Lecce vincesse e lui potesse incassare quanto pattuito.
In tutto questo, come se non facesse già abbastanza schifo, ci sono anche degli ultras. Pare che alcuni di loro - fregandosene bellamente del calcio vero e proprio - siano coinvolti in questa losca compravendita. Secondo voi, un Tifoso vero, come si sente? Beh, io ne conosco un po', di Tifosi veri. Gente che - appunto - si fa un fegato tanto, gente che rinuncia al pranzo in famiglia quando Sky decide che il Bari deve giocare alle 12.30, anche se si muore di caldo. Gente che vive l'appuntamento col calcio come si vive una giornata di festa. Persone che ci credono sul serio, a quei colori, che seguono tutte le partite in casa e mettono da parte i soldi per le trasferte importanti, perché - dicono - la squadra ha bisogno di loro così come loro hanno bisogno della squadra. Già, ci spendono dei soldi. Non li guadagnano truccando i risultati, li spendono per andare a vedere uno spettacolo pensando che non sia tutto già scritto.
Ho parlato con loro, nei giorni caldi del calcioschifo. Si sentono tutti allo stesso modo, più o meno. Come quando la persona che ami ti tradisce.
"Qualcosa si è rotto", mi hanno detto alcuni. Una specie di indigestione, che richiede un periodo di disintossicazione. Per recuperare la fiducia e l'entusiasmo sinceri per poter stare con serenità sugli spalti a sudare o a puzzarsi di freddo.
"Una piccola consolazione però c'è; è come quando vedi la tua donna distratta, assente…e ti fai delle domande e pensi sia colpa tua. Poi ti accorgi che semplicemente ti metteva le corna, la stronza".
"Quando l'amore ti tradisce, tu non puoi comunque impedire al tuo cuore di amare ancora. E il Bari non è Masiello. Il Bari è il Bari".
È una questione d'amore, quindi. Ci provo sempre, a capire la passione per il pallone. Anche se la passione non ce l'ho, forse sto riuscendo a capirla un po' meglio.
La cosa che non capirò mai è il fuorigioco.


Grazie assai a Paolo, Micol, Corrado, Sergio (che prova anche a spiegarmi il fuorigioco da anni), Michele e Valerio per aver condiviso con me i loro pensieri.


sabato 31 marzo 2012

La verità, vi prego, sulla Barbie - Barbie Pannocchia

La vera storia, a puntate, dietro le Barbie di dubbia fattura.
Sono state messe sul mercato con un nome e una storia. Ma la verità è un'altra.
Sarò il Roberto Giacobbo dei vostri balocchi.



Tutti la conoscet
e come Barbie Totally Hair. Barbie Totalmente Capelli. A Bari la chiamerebbero Barbie Capacchiona.
In realtà questa bambola nasce come Barbie Pannocchia.
Alla Mattel hanno pensato che la solita bionda chioma fosse un po' venuta a noia, dopo tanti anni passati a
pettinare le bamboline (non a caso, la locuzione "pettinar le bambole" significa "perder tempo in attività oziose"); fu così che Fulvio Mattel decise di sostituire i capelli di Barbie con una pannocchia.
Era un'ottima annata per le pannocchie, per altro. Tutto il mondo non faceva che parlare di pannocchie. Erano o
vunque.
I capelli di Barbie Pannocchia erano lavabili. Ma anche qui c'era l'inghippo. Così come era fatale lavare i capelli delle ordinarie Barbie usando acqua calda (solo dopo anni, con l'arrivo del disincanto, scopri che sono di plastica e non veri, e che quindi se lavi la plastica con acqua calda, essa tende a stoppacciarsi trasformando i capelli di Barbie nell'epitome del crespo), allo stesso modo asciugando i capelli di Barbie Pannocchia col getto caldo del phon, essa diventava Barbie Pop Corn.
Ma a molte questo piaceva.

domenica 11 marzo 2012

Il tempo passato a fare dolcetti non è mai "perdu"

Nel suo à la recherche du temps perdu, Marcel Proust ha lasciato una memorabile pagina di letteratura (che i più gggiovani tra voi etichetteranno presto come “sbobbone indigeribile”) sulle madeleine.
«Non poteva semplicemente dire “Va’ che bel biscottino, mi ricorda quand’ero piccolo!”?».

No, perché così non se lo sarebbe ricordato nessuno, cretinetti, per quanto si tratti di un’intuizione semplice e universalmente condivisa.

Certo, questo getta un ancor più fitto alone di mistero sul successo dei libri di Fabio Volo, ma tant’è.

Il punto qui sono le madeleine. Proust ne assaggia una, e gli si riapre tutto il mondo della sua infanzia, inossidabilmente legato al sapore delizioso di quei dolcetti, a quando la zia Léonie, la domenica, gli dava un boccone di madeleine inzuppata nel tè. E dimentica la stanchezza, i disastri della vita, la mortalità stessa:
J’avais cessé de me sentir médiocre, contingent, mortel.
È chiaro che il trucchetto stava nel fatto che Proust aveva legato alle madeleine dei ricordi felici della sua infanzia, e mangiando quello stesso dolce dopo tanto tempo ha risvegliato quella stessa felicità nel suo cervello, sentendosi fuori dal tempo e felice come allora.
Ma ho pensato che comunque, per essere così potente, quel dolcetto francese dovesse avere qualcosa di magico, a suo modo.

E così ho provato anche io a fare le madeleine.

Ho setacciato 120 grammi di farina, ci ho aggiunto 100 grammi di zucchero, un pizzico di sale e 8 grammi di lievito per dolci.

Poi ho fuso 100 grammi di burro (ecco, il profumo del burro fuso mi rende sempre felice, per un motivo che forse un giorno un bravo analista mi aiuterà a capire; forse perché è preludio di dolcetti), sbattuto 2 uova, a cui ho aggiunto 7 gocce di aroma alla vaniglia. La ricetta originale prevede aroma alla mandorla, ma io sono una fan della vaniglia, siate buoni.

Ho aggiunto alle polveri prima le uova e poi il burro. L’impasto deve essere liscio e quasi liquido, un po’ più liquido di una crema pasticcera, per intenderci. Per dare la giusta consistenza, si aggiunge del latte (q.b.).

Ho fatto riposare in frigo il composto ottenuto per un’ora circa (anche mezz’ora andrà bene, ma non di meno).
Ho riempito per tre quarti le formine a forma di conchiglia dello stampo per madeleine che due dei miei più cari amici mi hanno portato da Parigi.

Le madeleine cuociono per dieci minuti a 200° (prendono quella forma caratteristica con quella panzetta che a loro tanto sta bene) e altrettanti minuti circa a 180°; o comunque finché non le vedrete ben dorate anche sulla suddetta panzetta.

Quando le ho assaggiate, ebbra del profumo che si stava diffondendo da minuti in tutta la casa, non mi è venuta in mente l’infanzia di nessuno, ovviamente. E non mi sono sentita immortale, né fuori dal tempo.
Ma era perché dovevo ancora farcire le madeleine del mio personale ricordo, il click che riportava Proust al suo rapporto felice con la zia Léonie e con la vita.
Così le ho condivise con le persone che preferisco, che di bei ricordi me ne regalano ogni giorno. E ho visto i loro occhi e i loro sorrisi: adesso anche io potrò trovare un mondo felice dentro un dolcetto francese.

sabato 25 febbraio 2012

Cara Blanche...

“Ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”, diceva Blanche Dubois in Un tram che si chiama desiderio.
Blanche non parla della bontà di chi invece ti conosce: perché se uno ti conosce, fa presto a essere buono o meno buono di conseguenza. La cosa che mi sconvolge, e che Blanche invece trova tanto naturale, è quando qualcuno che non ti ha mai visto in vita sua decide di essere buono proprio con te. Senza motivo.
Magari solo perché ha avuto un buon risveglio, o perché trova la tua faccia simpatica, o perché ha meno problemi di te. O perché ha molti più problemi di te.
Se davvero tutti gli sconosciuti fossero buoni, partirebbe un circolo virtuoso di bontà che gli Snorky siamo-tutti-amici-e-perciò-felici sembrerebbero degli hooligans.
La vita reale è un po' diversa, per quanto anch'essa contempli l'esistenza degli hooligans e degli Snorky.
Così finisce che un giorno l'autobus non passa all'orario previsto. E piove.

Ma tu incontri uno degli autisti d'autobus più gentili della storia, che ti raccatta disperata e gocciolante e in ritardo e ti accompagna fino alla fermata di un altro bus, quello che ti salverà la giornata. Si assicura che tu lo prenda e raccomanda la tua anima e le tue membra distrutte a un altro autista (ovviamente il secondo più gentile della storia) che farà in modo che nonostante tutto tu arrivi in ufficio in orario.
Ore dopo, tornando a casa, vedi che il bus sta arrivando alla ferm
ata prima di te, allora inizi a correre, con l'autobus alle tue spalle come la più classica delle esplosioni in un film di Tom Cruise. Ma lui ti vede e non rallenta (proprio come le esplosioni nei film di Tom Cruise; anzi, secondo me Tom Cruise fa esplodere la roba, ve lo dico), e tu corri, con le tue gambette troppo corte per tenere il passo di un autobus.
Ti supera persino un ciclista (cosa che a Tom Cruise non succederebbe mai). L'omino in bici però si gira verso di te e dice "Te lo faccio fermare?". Annuisci, incapace di emettere qualsiasi suono, dato che stai correndo da metri e metri e metri (molti di più di quelli che separano il letto di casa tua dal bagno, e quella è la distanza massima che sei abituata a correre). L'omino bussa sulla porta del bus, fa cenno all'autista come per dire "Guarda che qua c'è una disperata che deve salire o schioppa sul posto". E così l'omino in bici ti salva. Raccogli il fiato necessario per lanciargli un "Grazie!" e sali leggiadra come Oriella Dorella.
Tu mi dirai, Blanche, che da questa storia si evince che è vero che gli sconosciuti sono buoni. Io ti dirò che pure gli autisti dei bus che non sono passati/non mi avrebbero aspettata erano degli sconosciuti.
Sarà che tu sei donna di tram e io di bus, ma gli sconosciuti sono anche dei gran fetenti, Blanche. La bontà è distribuita a casaccio. Il bello è trovarla.

martedì 31 gennaio 2012

L'autobus e l'autoroscopo

Agli oroscopi non ho mai creduto. Quando nasci, più che la posizione delle stelle, conta quella dell’ostetrica che ti deve raccogliere all’uscita.
E se con una persona ci vai d’accordo, non dipende certo dal giorno in cui siete nati anni e anni prima.
Ma c’è stato un momento preciso in cui sono passata dall’indifferenza per gli oroscopi all’idiosincrasia.
È successo all’inizio di gennaio, con l’oroscopo di Paolo Fox.
È lunedì, il lunedì dopo l’Epifania; oggi riprendo a lavorare a pieno regime dopo un periodo di orari insolitamente flessibili. Per di più, ora lavoro in un nuovo ufficio, che si trova dalla parte opposta della città.
Così sono alla fermata di un autobus di mattina presto, molto presto: è ancora buio; ho due borse che mi pesano sulle spalle, e ho un sonno schiacciante; ma per fortuna ho la radio a tenermi compagnia mentre aspetto il bus.
Che ancora non passa.
Per fortuna è presto, avevo calcolato questo simpatico ritardo rispetto agli orari scritti sul
tabellino.
Ce la farò, ad essere in ufficio alle otto.
Intanto inizia a fare giorno. E continuano a passare bus di ogni numero, tr
anne il mio.
E la radio contin
ua a tenermi compagnia.
Sono le otto e venti. Aspetto da un’ora e quaranta minuti, ho le spalle sbricio
late dal peso delle due borse (par condicio del dolore, si chiama), fa freddo e sta iniziando a piovigginare: acqua neve.
E Paolo Fox, alla radio, sta leggendo l’oroscopo del giorno. La sua voce è allegra, squillante, ottimista…ecco, ecco: il mio segno, sentiamo.

“Scorpione: oggi per voi sarà una giornata splendida, davvero fortunata!”E io, alle otto e venti, in piedi come uno stoccafisso da un’ora e quaranta, con le spalle
sbriciolate dal peso delle borse, col sonno schiacciante, col freddo nelle ossa e sotto l’acqua neve, in ritardo mostruoso per la prima volta dopo anni di onorato servizio, stacco via l’auricolare e dichiaro eterna guerra a Paolo Fox e ai maledettissimi oroscopi.
Lo decido io, se è un giorno fortunato. E oggi, caro Paolo Fox, per questo Scorpion
e in particolare è una giornata di mer*a.
Dunque, siccome lo decido io, ho deciso anche che ognuno può essere il Paolo Fox di se stesso e farsi l’autoroscopo.
Le regole sono un po’ diverse dall’oroscopo vero e proprio; la sola cosa in comune è la pressoché totale assenza di fondamento scientifico.
Prendetevi cinque minuti e pensate alle cose che secondo voi verosimilmente potrann
o succedervi domani. Non siate gnorri, qualche previsione la potete fare. “Avrò mal di testa” se sapete che stasera berrete un po’; “Mi sentirò triste”, se vi sentite tristi e pensate che nulla possa tirarvi su anche domani; “Sarò di buonumore”, se sapete che domani a lavoro arriverà una fornitura di cialde speciali per le macchinette del caffè; “Attenzione alla tachicardia”, se sapete che abuserete delle suddette cialde speciali della macchinetta del caffè.
Il giorno dopo, poi, verificate quanto di quello che avete previsto si è avverato. In più, scoprirete di voi stessi più cose di quante qualsiasi paolofox potrà mai venirvi a dire sulla sola base del vostro giorno di nascita.


domenica 15 gennaio 2012

Come stai?

Il galateo stabilisce una serie di regole talvolta molto utili. Apparentemente incomprensibili, ogni tanto, ma spesso conviene attenervisi (quando la smetterò di coniugare i verbi attaccandoci ventisei particelle, non lo so).
Il galateo, spesso, indica anche quali argomenti usare per fare conversazioni superficiali con gli altri esseri umani e quali evitare assolutamente.
Si parla del tempo, ad esempio, ma non si parla mai di politica o religione quando si sta a tavola.
C'è una cosa importante, però, che sfugge a tutti i manuali di buona educazione (e se mi sbaglio, mi corrigerete).
E cioè che "Come stai?" non è una frase di circostanza. "Come stai?" è una domanda vera, che prevede dunque un reale interesse da parte di chi la fa e dei presupposti a rispondere sinceramente da parte di chi se la sente porre.
Perciò non chiederei mai "Come stai?" a qualcuno di cui non mi interessa un accidenti.
Non si chiede "Come stai?" alla gente tanto per fare conversazione.
Ché magari in fondo uno si aspetta di sentirsi dire "Tutto bene e tu?" e magari poi ce la si può sbrigare con un "Non c'è male" e chiuderla lì.
E magari non è vero né che va "Tutto bene", né che "Non c'è male". E allora che senso ha.
O peggio ancora, non si chiede "Come stai?" soltanto per ricevere poi la stessa domanda e potersi così sfogare raccontando i fatti propri.
"Come stai?" non è una domanda-riempitivo come "Fastidiosa questa pioggia, eh?".

È una domanda vera, e non bisognerebbe farla, se non si è pronti a ricevere una risposta vera.


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