Piangere è un
brutto affare. Soprattutto d’estate. Se questo fosse davvero il migliore dei
mondi possibili come dicono, d’estate piangeremmo granite. Al gusto della
frutta che uno mangia. Mangi una fetta d’anguria, riguardi Love story, ti commuovi, e
piangi granite d’anguria. Sarebbe perfetto. Invece no, si piangono calde,
caldissime lacrime indipendentemente dalla stagione. E quindi d’estate è una
sofferenza amplificata, e si finisce col pensare che la frase “non ho gli occhi
per piangere” non sia poi così triste. A volte sarebbe davvero bello non avere
gli strumenti per farsi un pianto.
Il contorno è una semplice insalata di
valerianella - così CI DIAMO TUTTI UNA CALMATA -
pomodorini, brunoise di sedano, e granella di nocciole.
In molti casi, reprimere
lacrime, groppi in gola, magoni, non è salutare. Sfogarsi fa bene, se lo si fa
con discrezione: "sincero è il dolore di
chi piange in segreto", diceva Marziale.
Ma pure piangere
stanca. Allora ogni tanto è meglio sfogarsi in altro modo, mettendosi a
cucinare qualcosa di buono che non dia spazio alle lacrime. Ecco perché la
Natura, per farsi perdonare l'averci negato lacrime di granita, ci ha dato
l’erba cipollina. Un gusto delicato, dal sapore vicino a quello della cipolla,
ma senza alcun effetto collaterale sui nostri occhi: niente lacrime.
Quindi ne ho
tagliuzzata un po’ e l’ho messa in una ciotola con due uova, un po’ di sale e
pochissimo pepe bianco, e ho sbattuto il tutto con una forchetta. In un’altra
ciotola ho mescolato ricotta, gamberetti, un po’ di zucchina
grattugiata, (sale, pepe) e ancora un po’ d’erba cipollina.
Ho messo su fuoco
medio una padella antiaderente unta d’olio extra-vergine d’oliva e – una volta
calda – ho calato il composto di uova e erba cipollina, assicurandomi che si
stendesse in maniera uniforme e piuttosto sottile. Quando era quasi del tutto
rassodato, ho sistemato su un lato il composto a base di ricotta, e ho chiuso con attenzione l’omelette a semicerchio.
I francesi dicono che "il faut casser des œufs pour faire une omelette": bisogna rompere le uova, per fare un'omelette; per
quanto lapalissiano, è un ottimo promemoria di come – per ottenere molte delle
cose più buone della vita – si debbano affrontare sforzi, strappi, sacrifici, rotture.
E se, quando la
state richiudendo, pure l’omelette vi si (s)casse, se proprio non vi riesce di chiuderla bene, non mettetevi
a piangere, e trasformate tutto in “uova strapazzate con ricotta, gamberetti e
verdure”. È buonissimo lo stesso. Non si piange sul latte versato, figuratevi se si piange sulle
omelette rotte.
La libertà
d’espressione è una cosa sacrosanta. Ma è anche vero che ci sono confini che
non vanno superati. Perché se no, signora mia, si perde la bussola. Non è che
siccome puoi fare quello che vuoi, allora puoi spostare Greenwich di un
migliaio di km più a destra. O
disegnare le sopracciglia alla Gioconda con l’UniPosca. O metterti a vendere panzerotti in un fast food.
Non tutti sanno
cosa sia un panzerotto, ma questa è una piccola manifestazione d’apocalisse che
possiamo comprendere e financo limitatamente perdonare, purché vi si rimedi in
fretta.
Il panzerotto (detto in alcuni luoghi
anche panzarotto) non è semplice
cibo. Tecnicamente è un semicerchio di pasta ripieno di pomodoro e mozzarella
(nella sua variante classica) e poi fritto, oppure cotto in forno.
Monsieur il Panzerotto, preparato dalle amorevoli mani
della signora Ammodomio
Ma il panzerotto
è molto più di questo: è un simbolo. Sono per metà pugliese e per metà campana,
so di cosa parlo. Il panzerotto è amore, è uno scrigno degno delle migliori
pagine di Proust. Quando addenti un panzerotto, vieni sommerso – oltre che
dalla colata lavica del ripieno – dall’essenza del Sud, dalle serate in
compagnia di amici o parenti a guardare le partite dei mondiali, dal ricordo di
quella volta che per ammazzare tutto il dolore niente fu più forte del
fritto,e delle innumerevoli volte
in cui il filo della mozzarella calda è stato il segno tangibile e ustionante
del legame con le persone che ami di più, e dal ricordo della voce di nonna che
ti chiede se lo vuoi con la ricotta o senza, e tu rispondi “Tutt’e due”.
Per questo,
soprattutto, vacillo davanti alla trovata di uno dei più noti fast food del
pianeta, che per discrezione chiameremo Mc
Fonald’s, che ha deciso di mettere sul mercato un abominio dandogli il nome
di Pizzarotto,
deprecabile ibrido tra pizza e panzerotto. Il deprecabile ibrido, stando alle
recensioni, altro non è che una specie di schiacciatina con dentro infilati del
formaggio a pasta filata e salsa di pomodoro random. Senza scendere in dettagli
sulle proprietà gustative dell’oggetto, basta guardarlo per capire che tutto è,
fuorché un panzerotto. O una pizza. O una via di mezzo tra entrambi.
Il panzerotto vero
si impone con la sua statuaria semplicità, il suo nome deriva proprio da
“panza”, quindi è bello rigonfio, ti conquista con la sua bellezza piena e
carica di promesse. Il panzerotto è come Sophia Loren. Non è una soletta gialla
con accidentale contenuto.
Non lo si prepara
tutto eoni prima, tenendolo chissà come in sospensione criogenica e
facendolo rinvenire al momento. Lo si prepara con amore, per l’impasto ci vuole
tempo, e solo all’ultimo si farcisce e si frigge. Lo si prepara così, ad
esempio.
E il panzerotto
vero non lo puoi mangiare seduto ai tavolini di un fast food. È tra le prime
cose che devi imparare quando arrivi a Bari, come si mangia il panzerotto.
Per evitare,
infatti, di essere sommersi dalla succitata colata lavica di ripieno di (vero)
pomodoro e (vera) mozzarella, è importantissimo assumere la posa del panzerotto:
in piedi
gambe divaricate quanto l’ampiezza delle
proprie spalle
panzerotto ben impugnato con entrambe le
mani e ben avvolto nella sua carta d’ordinanza (non importa che sia oleata o
no: col panzerotto tutto diventerà oleato, pure voi)
schiena protesa in avanti di 20°
inevitabile conseguente culo a papera
In questo modo
sarete certi di non essere feriti dal ripieno, di godere appieno
dell’esperienza del panzerotto, e soprattutto d’integrarvi perfettamente con
gli autoctoni. Soprattutto se vi lasciate coinvolgere nel consumo del panzerotto al cofano. Il panzerotto al
cofano è il rito secondo il quale si arriva sul posto in macchina, si
parcheggia, si comprano i panzerotti, e si consumano fuori dal locale. Siate
scaltri e non fatevi riconoscere come stranieri: siate pronti e sicuri di voi nel
sistemare il vassoio coi panzerotti sul cofano (perché il calore del motore appena spento li tiene
caldi) e la Peroni d’ordinanza sul tetto della macchina, così si tiene fresca e
l’altare guadagna completezza.
Mc Fonald’s però cerca di farcelo piacere in tutti i modi,
questo scempio. Con delle foto promozionali bellissime. Ma forse a Mc Fonald’s sfugge che chiunque può
fotografare le cose (come stanno) e metterle poi in internet. Giudicate voi.
A sinistra, una foto promozionale del pizzarotto. A destra, una foto di com'è davvero (grazie all’eroico sacrificio di Scatti di Gusto).
E, infine,
giudicate un’ultima cosa. Il pizzarotto costa due euro.
Sorbillo, una
delle migliori pizzerie di Napoli (e dunque una delle migliori pizzerie del
mondo), fa pagare un autentico, pienissimo, lussurioso calzone (bello grande) quattro euro.
E Cibò, uno dei
punti di riferimento del panzerotto barese, fa pagare un perfetto panzerotto
fritto tra 1 euro e 1 euro e 50.
Per quale ragione
una sociopatica dovrebbe infilarsi in una bolgia di sessantamila persone, e un
pigro ostinato dovrebbe salire gradini e gradini per dieci minuti buoni e
ballare per tre ore e mezza? Una delle pochissime ragioni – se non forse
l’unica – per simili atti contro natura è la musica.
È una lunga
storia, quella del rispondere sì al mio amico Sergio quando – sei mesi fa –
mi ha chiesto se volessi accompagnarlo al concerto di Bruce Springsteen, il tre
giugno, a San Siro.
Un sì che è diventato una delle cose
divertenti che non farò mai più (?).
Per giorni
abbiamo controllato il meteo per il 3 giugno, e sembrava avrebbe dovuto essere
l’unico giorno di basse temperature e piogge abbondanti di tutta la settimana.
Esco di casa attrezzata, col mio bell’impermeabilino rosso, e un maglioncino in
borsa che-non-si-sa-mai, e naturalmente ci sono trenta gradi, e un sole che
spacca le pietre. Poco male, penso. Finché non dobbiamo infilarci dentro la
metropolitana piena come fossimo a Tokyo, grazie al fatto che c’è anche un
provvidenziale sciopero dei mezzi pubblici e tutti hanno pensato di prendere
l’ultima metro disponibile per arrivare a San Siro. Che telepatia, questi
springsteeniani.
Forse non tutti
sanno che lo stadio Giuseppe Meazza non proietta un’ombra. Probabilmente ne
proietterà una durante tutto l’anno, ma il 3 giugno 2013, dalle sei alle sette
di pomeriggio, con una temperatura vergognosamente alta, e il sole che spacca le pietre di cui sopra esso no, non ha proiettato alcuna ombra.
In balia di tutto
ciò, in un raro momento di lucidità, decidiamo di cercare il nostro ingresso e
metterci in fila per entrare: almeno sugli spalti ci sarà ombra e potremo
sederci.
“Dai, Sergio,
troviamo la coda della fila e iniziamo…”, dico percorrendo a ritroso un
serpentone lunghissimo.
Finché non vedo
una faccia conosciuta. No, nessun componente della E Street Band è in fila per
entrare: semplicemente inizio a rivedere facce che avevo già visto in coda.
Dopo qualche secondo di smarrimento mi rendo conto che siamo davanti a un
classico esempio di coda che si morde la coda: questa fila è a forma di “8”,
non ha alcun senso e probabilmente questa gente morirà qui, aspettando di
entrare a San Siro in un torrido pomeriggio di giugno. Avendo posti numerati, per giunta, il che rende tutto ancor più insensato.
Sarei morta lì
anch’io, se Sergio non mi avesse proposto qualcosa che è totalmente contro il
regolamento che ho affisso alle pareti della mia scatola cranica: saltare la
fila.
Per saltare una
chilometrica fila nonsense di springsteeniani in attesa sotto il sole occorrono:
un paio di occhiali da sole con lenti
scure
una massiccia dose di faccia ignorante
un complice
mappe, volantini, generici fogli di carta
da tenere in mano
Iniziate a
camminare con lentezza, assieme al vostro complice, verso metà dell’ultimo
troncone di fila prima dell’ingresso. Indossate i vostri occhiali scuri, la
vostra faccia ignorante, e fingete di leggere qualsiasi foglio di carta stiate
tenendo in mano. Guardatevi attorno come se l’ultimo vostro pensiero fosse la
fila. Ora accostatevi in maniera tangente alle persone in coda, ma non intrufolatevi
ancora. Siate pazienti e continuate per qualche metro a camminare tangendo la
fila, e ignorandola, scambiando chiacchiere col vostro complice e guardando da
tutt’altra parte. Quando siete arrivati quasi all’inizio della fila (è
importantissimo non tentare l’arrembaggio alla testa, sarebbe troppo palese e
verreste subito scoperti e cacciati in fondo), fate dei piccolissimi passi di
lato, inserendovi in uno spiraglio ampio a sufficienza e continuando a fare gli
gnorri. Questa è la parte più importante: non attentare alla testa, e
continuare a fare gli gnorri per un po’, come se foste finiti in fila
totalmente per caso e non ve ne importasse nemmeno poi tanto. Restate così,
ottusi e ignoranti, per qualche minuto ancora, e il gioco è fatto.
Noi siamo stati
aiutati anche dal fatto di esserci piazzati davanti a dei francesi che
litigavano tra loro. Come padroni di casa, ci siamo anche sentiti in completo
diritto di metterci davanti a loro. Non ha senso, è un ragionamento molto
meschino, ma vi assicuro che al momento mi ha convinta a sedare ogni senso di
colpa.
Il mio amico
Sergio è il tipo di persona che prende il motorino per fare due isolati. Nel
motivarlo a salire fino al secondo anello di San Siro mi sento come quando Duke
e Paulie motivano Rocky a spaccare la faccia a Ivan Drago. Ci sistemiamo
finalmente sui nostri bei seggiolini rossi numerati, e ci godiamo per un po’ il
colpo d’occhio sullo stadio che inizia a riempirsi in ogni ordine di posto.
Quando Bruce
Springsteen arriva sul palco e inizia a suonare, ci metto poco a capire perché
lo chiamino “The Boss”. Io sarei collassata chiedendo pietà e cinque minuti di
pausa già dopo la terza canzone. Quello invece ci tiene vivi, attivi e felici
per tre ore e mezza. Tre ore e mezza senza fermarsi un secondo, senza annoiarsi
né annoiare, correndo, ballando, cantando, suonando, parlando, e zompando sui
pianoforti.
Ok, sì, non zompa
più come dieci anni fa, è più un salirci sopra in fretta. Ma il signore in
questione ha più di sessant’anni. E dopo il concerto, e dopo la pantomima di
“Ok dai usciamo ancora e suoniamone altre”, esce ancora e suonauna versione potenzialmente fatale di Twist and shout e di Shout, tenendo in mano sessantamila
persone come fossero i suoi pupazzetti, facendoci fare quello che voleva,
ballare, saltare, cantare, stenderci a terra – con somma gioia di Sergio che, a
questo punto, è ridotto a un’ameba – e rialzare a fare i cretini per altri
venti minuti ancora. Voleva ucciderci, è chiaro.
Ma alla fine ha
avuto pietà di noi, e della povera E Street Band, che ha mandato a riposare per
poi tornare sul palco, da solo, a farci venire copiosi lucciconi con una
versione di Thunder road da brividi.
O forse era la febbre, non lo so.
Da San Siro si
esce vivi, per fortuna; gli springsteeniani mi sono sembrati persone carine.
Intere famiglie – tre generazioni tre – muovono imbambolate verso le uscite,
con le consuete file all’italiana, ovvero un imbuto di gente ammucchiata alla
bell’e meglio.
E se per arrivare
a San Siro ci abbiamo messo poco più di mezz’ora, camminata sotto il sole
inclusa, al ritorno pensiamo di prendercela comoda, e usare un bus ATM che ci
porti in metro e poi a casa. Risparmieremo tempo e fatica, abbiamo pensato,
scaltre faine.
Per tornare a
casa ci ho messo due ore.
Il bus dell’ATM (con
le sospensioni rotte, tanto per farci pure male, come se non bastassero la
folla e il caldo) altro non è che il set di un film horror, di quelli che
iniziano con un momento felice, tipo – che so – la fine di un bellissimo
concerto, e poi tutti salgono allegri sul bus, e poi capisci che l’autista è un
pazzo omicida che li sequestra tutti e non li fa mai più scendere e li tiene lì
a morire di caldo e di stenti fra atroci sofferenze. Ci tiene ostaggio per le vie di mezza Milano,
facendo inspiegabilmente il percorso più lungo per portarci alla metro
(“inspiegabilmente” si fa per dire: vuole ovviamente ucciderci), ulteriormente
rallentato dal traffico infernale del post-concerto.
Ottima idea stare
per ore sul bus della morte per evitare di camminare dieci minuti, ottima idea
davvero.
Con questa trovata
geniale, siamo riusciti a prendere una sola delle due metro necessarie a
tornare a destinazione, ma almeno ho fatto in tempo a vivere la fondamentale esperienza
di un francese ubriaco che ti si spalma addosso mentre tu cerchi di non toccare
nessuno perché sono tutti sudati da fare schifo (te compresa, ma mi concederete
che il sudore di un estraneo francese ubriaco mi faccia più schifo del mio). Ci
siamo dunque giocati l’ultima metro, e solo dopo una sana botta di zuccheri
fornita da provvidenziali caramelline gelée ritrovate in borsa, si è trovata la
lucidità necessaria a chiamare un taxi (che ovviamente aveva le sospensioni
rotte pure lui) che ci ha portato ai rispettivi letti.
Sergio (al suo quindicesimo concerto di Springsteen) dice che
una fatica del genere non la farà mai più.
Io non lo so.
Magari la prossima volta mi porto più caramelle.