mercoledì 26 giugno 2013

Inutile piangere (sulle uova rotte) - Omelette all'erba cipollina

Piangere è un brutto affare. Soprattutto d’estate. Se questo fosse davvero il migliore dei mondi possibili come dicono, d’estate piangeremmo granite. Al gusto della frutta che uno mangia. Mangi una fetta d’anguria, riguardi Love story, ti commuovi, e piangi granite d’anguria. Sarebbe perfetto. Invece no, si piangono calde, caldissime lacrime indipendentemente dalla stagione. E quindi d’estate è una sofferenza amplificata, e si finisce col pensare che la frase “non ho gli occhi per piangere” non sia poi così triste. A volte sarebbe davvero bello non avere gli strumenti per farsi un pianto. 
Il contorno è una semplice insalata di 
valerianella - così CI DIAMO TUTTI UNA CALMATA -  
pomodorini, brunoise di sedano, e granella di nocciole.
In molti casi, reprimere lacrime, groppi in gola, magoni, non è salutare. Sfogarsi fa bene, se lo si fa con discrezione: "sincero è il dolore di chi piange in segreto", diceva Marziale.
Ma pure piangere stanca. Allora ogni tanto è meglio sfogarsi in altro modo, mettendosi a cucinare qualcosa di buono che non dia spazio alle lacrime. Ecco perché la Natura, per farsi perdonare l'averci negato lacrime di granita, ci ha dato l’erba cipollina. Un gusto delicato, dal sapore vicino a quello della cipolla, ma senza alcun effetto collaterale sui nostri occhi: niente lacrime.
Quindi ne ho tagliuzzata un po’ e l’ho messa in una ciotola con due uova, un po’ di sale e pochissimo pepe bianco, e ho sbattuto il tutto con una forchetta. In un’altra ciotola ho mescolato ricotta, gamberetti, un po’ di zucchina grattugiata, (sale, pepe) e ancora un po’ d’erba cipollina. 
Ho messo su fuoco medio una padella antiaderente unta d’olio extra-vergine d’oliva e – una volta calda – ho calato il composto di uova e erba cipollina, assicurandomi che si stendesse in maniera uniforme e piuttosto sottile. Quando era quasi del tutto rassodato, ho sistemato su un lato il composto a base di ricotta, e ho chiuso con attenzione l’omelette a semicerchio.
I francesi dicono che "il faut casser des œufs pour faire une omelette": bisogna rompere le uova, per fare un'omelette; per quanto lapalissiano, è un ottimo promemoria di come – per ottenere molte delle cose più buone della vita – si debbano affrontare sforzi, strappi, sacrifici, rotture. 

E se, quando la state richiudendo, pure l’omelette vi si (s)casse, se proprio non vi riesce di chiuderla bene, non mettetevi a piangere, e trasformate tutto in “uova strapazzate con ricotta, gamberetti e verdure”. È buonissimo lo stesso. Non si piange sul latte versato, figuratevi se si piange sulle omelette rotte.

giovedì 20 giugno 2013

J'accuse (o "In difesa del panzerotto")

La libertà d’espressione è una cosa sacrosanta. Ma è anche vero che ci sono confini che non vanno superati. Perché se no, signora mia, si perde la bussola. Non è che siccome puoi fare quello che vuoi, allora puoi spostare Greenwich di un migliaio di km più a destra. O disegnare le sopracciglia alla Gioconda con l’UniPosca. O metterti a vendere panzerotti in un fast food.
Non tutti sanno cosa sia un panzerotto, ma questa è una piccola manifestazione d’apocalisse che possiamo comprendere e financo limitatamente perdonare, purché vi si rimedi in fretta.
Il panzerotto (detto in alcuni luoghi anche panzarotto) non è semplice cibo. Tecnicamente è un semicerchio di pasta ripieno di pomodoro e mozzarella (nella sua variante classica) e poi fritto, oppure cotto in forno.
Monsieur il Panzerotto, preparato dalle amorevoli mani
della signora Ammodomio
Ma il panzerotto è molto più di questo: è un simbolo. Sono per metà pugliese e per metà campana, so di cosa parlo. Il panzerotto è amore, è uno scrigno degno delle migliori pagine di Proust. Quando addenti un panzerotto, vieni sommerso – oltre che dalla colata lavica del ripieno – dall’essenza del Sud, dalle serate in compagnia di amici o parenti a guardare le partite dei mondiali, dal ricordo di quella volta che per ammazzare tutto il dolore niente fu più forte del fritto, e delle innumerevoli volte in cui il filo della mozzarella calda è stato il segno tangibile e ustionante del legame con le persone che ami di più, e dal ricordo della voce di nonna che ti chiede se lo vuoi con la ricotta o senza, e tu rispondi “Tutt’e due”.
Per questo, soprattutto, vacillo davanti alla trovata di uno dei più noti fast food del pianeta, che per discrezione chiameremo Mc Fonald’s, che ha deciso di mettere sul mercato un abominio dandogli il nome di Pizzarotto, deprecabile ibrido tra pizza e panzerotto. Il deprecabile ibrido, stando alle recensioni, altro non è che una specie di schiacciatina con dentro infilati del formaggio a pasta filata e salsa di pomodoro random. Senza scendere in dettagli sulle proprietà gustative dell’oggetto, basta guardarlo per capire che tutto è, fuorché un panzerotto. O una pizza. O una via di mezzo tra entrambi.
Il panzerotto vero si impone con la sua statuaria semplicità, il suo nome deriva proprio da “panza”, quindi è bello rigonfio, ti conquista con la sua bellezza piena e carica di promesse. Il panzerotto è come Sophia Loren. Non è una soletta gialla con accidentale contenuto.
Non lo si prepara tutto eoni prima, tenendolo chissà come in sospensione criogenica e facendolo rinvenire al momento. Lo si prepara con amore, per l’impasto ci vuole tempo, e solo all’ultimo si farcisce e si frigge. Lo si prepara così, ad esempio. 
E il panzerotto vero non lo puoi mangiare seduto ai tavolini di un fast food. È tra le prime cose che devi imparare quando arrivi a Bari, come si mangia il panzerotto.
Per evitare, infatti, di essere sommersi dalla succitata colata lavica di ripieno di (vero) pomodoro e (vera) mozzarella, è importantissimo assumere la posa del panzerotto:
  •         in piedi
  •         gambe divaricate quanto l’ampiezza delle proprie spalle
  •         panzerotto ben impugnato con entrambe le mani e ben avvolto nella sua carta d’ordinanza (non importa che sia oleata o no: col panzerotto tutto diventerà oleato, pure voi)
  •         schiena protesa in avanti di 20°
  •         inevitabile conseguente culo a papera

In questo modo sarete certi di non essere feriti dal ripieno, di godere appieno dell’esperienza del panzerotto, e soprattutto d’integrarvi perfettamente con gli autoctoni. Soprattutto se vi lasciate coinvolgere nel consumo del panzerotto al cofano. Il panzerotto al cofano è il rito secondo il quale si arriva sul posto in macchina, si parcheggia, si comprano i panzerotti, e si consumano fuori dal locale. Siate scaltri e non fatevi riconoscere come stranieri: siate pronti e sicuri di voi nel sistemare il vassoio coi panzerotti sul cofano (perché il calore del motore appena spento li tiene caldi) e la Peroni d’ordinanza sul tetto della macchina, così si tiene fresca e l’altare guadagna completezza.

Mc Fonald’s però cerca di farcelo piacere in tutti i modi, questo scempio. Con delle foto promozionali bellissime. Ma forse a Mc Fonald’s sfugge che chiunque può fotografare le cose (come stanno) e metterle poi in internet. Giudicate voi.
A sinistra, una foto promozionale del pizzarotto. A destra, una foto di com'è davvero (grazie all’eroico sacrificio di Scatti di Gusto).

E, infine, giudicate un’ultima cosa. Il pizzarotto costa due euro.
Sorbillo, una delle migliori pizzerie di Napoli (e dunque una delle migliori pizzerie del mondo), fa pagare un autentico, pienissimo, lussurioso calzone (bello grande) quattro euro.
E Cibò, uno dei punti di riferimento del panzerotto barese, fa pagare un perfetto panzerotto fritto tra 1 euro e 1 euro e 50.

Voi, con cinque euro in tasca, cosa fareste?
(Le mie amiche già lo sanno)

(ph. Simona Ardito)

sabato 8 giugno 2013

Cose divertenti che non farò mai più (?) - Quella volta che Bruce Springsteen voleva farci secchi

Per quale ragione una sociopatica dovrebbe infilarsi in una bolgia di sessantamila persone, e un pigro ostinato dovrebbe salire gradini e gradini per dieci minuti buoni e ballare per tre ore e mezza? Una delle pochissime ragioni – se non forse l’unica – per simili atti contro natura è la musica.
È una lunga storia, quella del rispondere sì al mio amico Sergio quando – sei mesi fa – mi ha chiesto se volessi accompagnarlo al concerto di Bruce Springsteen, il tre giugno, a San Siro. 
Un sì che è diventato una delle cose divertenti che non farò mai più (?).
Per giorni abbiamo controllato il meteo per il 3 giugno, e sembrava avrebbe dovuto essere l’unico giorno di basse temperature e piogge abbondanti di tutta la settimana. Esco di casa attrezzata, col mio bell’impermeabilino rosso, e un maglioncino in borsa che-non-si-sa-mai, e naturalmente ci sono trenta gradi, e un sole che spacca le pietre. 
Poco male, penso. Finché non dobbiamo infilarci dentro la metropolitana piena come fossimo a Tokyo, grazie al fatto che c’è anche un provvidenziale sciopero dei mezzi pubblici e tutti hanno pensato di prendere l’ultima metro disponibile per arrivare a San Siro. Che telepatia, questi springsteeniani.
Forse non tutti sanno che lo stadio Giuseppe Meazza non proietta un’ombra. Probabilmente ne proietterà una durante tutto l’anno, ma il 3 giugno 2013, dalle sei alle sette di pomeriggio, con una temperatura vergognosamente alta, e il sole che spacca le pietre di cui sopra esso no, non ha proiettato alcuna ombra.
In balia di tutto ciò, in un raro momento di lucidità, decidiamo di cercare il nostro ingresso e metterci in fila per entrare: almeno sugli spalti ci sarà ombra e potremo sederci.
“Dai, Sergio, troviamo la coda della fila e iniziamo…”, dico percorrendo a ritroso un serpentone lunghissimo.
Finché non vedo una faccia conosciuta. No, nessun componente della E Street Band è in fila per entrare: semplicemente inizio a rivedere facce che avevo già visto in coda. Dopo qualche secondo di smarrimento mi rendo conto che siamo davanti a un classico esempio di coda che si morde la coda: questa fila è a forma di “8”, non ha alcun senso e probabilmente questa gente morirà qui, aspettando di entrare a San Siro in un torrido pomeriggio di giugno. Avendo posti numerati, per giunta, il che rende tutto ancor più insensato.
Sarei morta lì anch’io, se Sergio non mi avesse proposto qualcosa che è totalmente contro il regolamento che ho affisso alle pareti della mia scatola cranica: saltare la fila.
Per saltare una chilometrica fila nonsense di springsteeniani in attesa sotto il sole occorrono:
  •        un paio di occhiali da sole con lenti scure
  •        una massiccia dose di faccia ignorante
  •        un complice
  •        mappe, volantini, generici fogli di carta da tenere in mano

Iniziate a camminare con lentezza, assieme al vostro complice, verso metà dell’ultimo troncone di fila prima dell’ingresso. Indossate i vostri occhiali scuri, la vostra faccia ignorante, e fingete di leggere qualsiasi foglio di carta stiate tenendo in mano. Guardatevi attorno come se l’ultimo vostro pensiero fosse la fila. Ora accostatevi in maniera tangente alle persone in coda, ma non intrufolatevi ancora. Siate pazienti e continuate per qualche metro a camminare tangendo la fila, e ignorandola, scambiando chiacchiere col vostro complice e guardando da tutt’altra parte. Quando siete arrivati quasi all’inizio della fila (è importantissimo non tentare l’arrembaggio alla testa, sarebbe troppo palese e verreste subito scoperti e cacciati in fondo), fate dei piccolissimi passi di lato, inserendovi in uno spiraglio ampio a sufficienza e continuando a fare gli gnorri. Questa è la parte più importante: non attentare alla testa, e continuare a fare gli gnorri per un po’, come se foste finiti in fila totalmente per caso e non ve ne importasse nemmeno poi tanto. Restate così, ottusi e ignoranti, per qualche minuto ancora, e il gioco è fatto.

Noi siamo stati aiutati anche dal fatto di esserci piazzati davanti a dei francesi che litigavano tra loro. Come padroni di casa, ci siamo anche sentiti in completo diritto di metterci davanti a loro. Non ha senso, è un ragionamento molto meschino, ma vi assicuro che al momento mi ha convinta a sedare ogni senso di colpa.
Il mio amico Sergio è il tipo di persona che prende il motorino per fare due isolati. Nel motivarlo a salire fino al secondo anello di San Siro mi sento come quando Duke e Paulie motivano Rocky a spaccare la faccia a Ivan Drago. Ci sistemiamo finalmente sui nostri bei seggiolini rossi numerati, e ci godiamo per un po’ il colpo d’occhio sullo stadio che inizia a riempirsi in ogni ordine di posto. 
Quando Bruce Springsteen arriva sul palco e inizia a suonare, ci metto poco a capire perché lo chiamino “The Boss”. Io sarei collassata chiedendo pietà e cinque minuti di pausa già dopo la terza canzone. Quello invece ci tiene vivi, attivi e felici per tre ore e mezza. Tre ore e mezza senza fermarsi un secondo, senza annoiarsi né annoiare, correndo, ballando, cantando, suonando, parlando, e zompando sui pianoforti. 

Ok, sì, non zompa più come dieci anni fa, è più un salirci sopra in fretta. Ma il signore in questione ha più di sessant’anni. E dopo il concerto, e dopo la pantomima di “Ok dai usciamo ancora e suoniamone altre”, esce ancora e suona una versione potenzialmente fatale di Twist and shout e di Shout, tenendo in mano sessantamila persone come fossero i suoi pupazzetti, facendoci fare quello che voleva, ballare, saltare, cantare, stenderci a terra – con somma gioia di Sergio che, a questo punto, è ridotto a un’ameba – e rialzare a fare i cretini per altri venti minuti ancora. Voleva ucciderci, è chiaro.


Ma alla fine ha avuto pietà di noi, e della povera E Street Band, che ha mandato a riposare per poi tornare sul palco, da solo, a farci venire copiosi lucciconi con una versione di Thunder road da brividi. O forse era la febbre, non lo so.
Da San Siro si esce vivi, per fortuna; gli springsteeniani mi sono sembrati persone carine. Intere famiglie – tre generazioni tre – muovono imbambolate verso le uscite, con le consuete file all’italiana, ovvero un imbuto di gente ammucchiata alla bell’e meglio.
E se per arrivare a San Siro ci abbiamo messo poco più di mezz’ora, camminata sotto il sole inclusa, al ritorno pensiamo di prendercela comoda, e usare un bus ATM che ci porti in metro e poi a casa. Risparmieremo tempo e fatica, abbiamo pensato, scaltre faine.
Per tornare a casa ci ho messo due ore.
Il bus dell’ATM (con le sospensioni rotte, tanto per farci pure male, come se non bastassero la folla e il caldo) altro non è che il set di un film horror, di quelli che iniziano con un momento felice, tipo – che so – la fine di un bellissimo concerto, e poi tutti salgono allegri sul bus, e poi capisci che l’autista è un pazzo omicida che li sequestra tutti e non li fa mai più scendere e li tiene lì a morire di caldo e di stenti fra atroci sofferenze. Ci tiene ostaggio per le vie di mezza Milano, facendo inspiegabilmente il percorso più lungo per portarci alla metro (“inspiegabilmente” si fa per dire: vuole ovviamente ucciderci), ulteriormente rallentato dal traffico infernale del post-concerto.
Ottima idea stare per ore sul bus della morte per evitare di camminare dieci minuti, ottima idea davvero.
Con questa trovata geniale, siamo riusciti a prendere una sola delle due metro necessarie a tornare a destinazione, ma almeno ho fatto in tempo a vivere la fondamentale esperienza di un francese ubriaco che ti si spalma addosso mentre tu cerchi di non toccare nessuno perché sono tutti sudati da fare schifo (te compresa, ma mi concederete che il sudore di un estraneo francese ubriaco mi faccia più schifo del mio). Ci siamo dunque giocati l’ultima metro, e solo dopo una sana botta di zuccheri fornita da provvidenziali caramelline gelée ritrovate in borsa, si è trovata la lucidità necessaria a chiamare un taxi (che ovviamente aveva le sospensioni rotte pure lui) che ci ha portato ai rispettivi letti.
Sergio (al suo quindicesimo concerto di Springsteen) dice che una fatica del genere non la farà mai più.
Io non lo so. Magari la prossima volta mi porto più caramelle.



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