domenica 23 ottobre 2011

Le orecchiette

Dicevo qui dei ricordi commestibili lasciati dai nonni.
La mia nonna materna, pugliese, mi ha lasciato le orecchiette.
Non le preparava solo la domenica: spesso - anzi - le faceva durante la settimana e le condiva con la rucola e le patate cotte nella stessa pentola in cui poi si cuociono le orecchiette. Dalle parti nostre, usa così.
Oppure le faceva col ragù (una versione del ragù meno densa e radioattiva di quella della mia nonna paterna, ma comunque deliziosa).

Ricordo di aver passato ore intere seduta accanto a lei, a guardarla impastare, tirare la pasta in lunghi cilindri sottili, tagliarla a tocchetti e trasformare questi ultimi in orecchiette piccole, perfette.
Quando ho deciso di passare dall'osservazione alla pratica, mia nonna non c'era più, così mi sono fatta aiutare da mia madre. E mi sono fatta prestare il Coltello da mio nonno: lo stesso coltello che usava nonna. Sì, perché il coltello è importante, capirete poi perché.

Si usa la semola di grano duro, e la si impasta con dell'acqua a tempera
tura ambiente. L'impasto non deve essere troppo morbido: deve risultare ben compatto, altrimenti quando trascinerete il tocchetto di pasta per trasformarlo in orecchietta, si sfilaccerà tutto.
L'impasto va steso in tanti serpentelli di pasta del diametro di circa mezzo centimetro, e poi va tagliato a piccoli tocchetti della lunghezza di un centimetro o due.
Ora assicuratevi di avere una superficie piuttosto ruvida su cui lavorare (mia nonna aveva fatto dei graffi ad hoc sulla spianatoia di legno su cui impastava). Poggiate la punta del coltello su quel tocchetto di pasta (ecco perché il coltello è importante: se avete uno di quelli che non tagliano granché, come quelli che danno in pizzeria, siete a cavallo) e fate pressione, trascinando verso di voi la pasta e lasciando che il polpastrello si inserisca nella piega che si forma: a questo punto, rivoltate il tutto con attenzione, e avrete ottenuto un'orecchietta, che sagomerete sul vostro stesso polpastrello (astenersi manicure con unghie lunghe).
Si può procedere anche solo con le dita, ma io uso il coltello perché le donne della mia famiglia mi hanno insegnato a far così. La dimensione delle orecchiette dipenderà da quanto piccoli avete fatto i tocchetti di pasta e da quanto piccoli sono i vostri polpastrelli: ho le stesse mani di mia nonna, con dita piuttosto sottili, quindi le nostre orecchiette sono piccine.
Lasciatele seccare per qualche ora. Io dopo un po' le rigiro una alla volta, per far sì che si asciughino più velocemente anche nella parte concava.
E siccome non ho la pazienza di nonna, che aspettava che si cuocessero le pa
tate per calare la pasta e la rucola, le ho condite con un sugo di melanzane. Ho saltato in padella le melanzane a cubetti, e a parte ho preparato un sugo di pomodoro che ho poi frullato con il minipimer aggiungendo della besciamella. Si ottiene una salsa rosa scuro, che poi ho aggiunto alle melanzane.
Più le orecchiette sono secche, più tempo ci mettono a cuocersi. Una volta cotte, le ho condite con il sugo di melanzana, ho aggiunto qualche cubetto di scamorza e ho passato tutto in forno per una dozzina di minuti.

sabato 22 ottobre 2011

I cazzarielli

I nonni sono importanti. E, fra tutto quello che possono insegnare e lasciare in memoria, c'è anche il cibo.
Le mie nonne erano molto diverse tra loro e, vivendo a centinaia di chilometri di distanza, si vedevano anche pochissimo.
Ma entrambe mi hanno lasciato come ricordo commestibile la pasta.
La mia nonna paterna - campana - ogni sabato iniziava a soffriggere, rimestare, curare il Ragù.
Iniziava dal sabato, sì, e il Ragù cuoceva - con qualche piccola pausa - fino al giorno successivo.
Il Ragù non deve bollire, altrimenti si azzecca. Il Ragù deve pippiare, ovvero sobb
ollire a lungo e in modo costante su una fiamma bassissima.
Avendolo cotto per così tante ore, il ragù della domenica di mia nonna era buonissimo, ma chiaramente era radioattivo. Finivi di digerirlo verso il martedì pomeriggio, e se malauguratamente ti fossi macchiato con una goccia di quel purissimo distillato di amore e gusto, nemmeno l'omino bianco in persona avrebbe potuto salvarti la camicia.
La pasta perfetta con il ragù della domenica di mia nonna sono i cazzarielli, che lei preparava ogni domenica mattina.

Tanto è lunga la preparazione del ragù, tanto è facile quella dei cazzarielli, che si chiamano così perché sono dei cosini (dei cazzarielli, appunto) fatti solo di acqua e farina.
Si mette a scaldare dell'acqua e, quando sta per bollire (inizia a sfrigolare contro il bordo della pentola di ferro), è il momento di versarla sulla farina. Non ci sono dosi: bisogna osservare e capire, aggiungendo l'acqua un po' per volta. Sappiate soltanto che il peso della farina iniziale diventa poco meno del doppio una volta impastatala con l'acqua.
All'inizio mescolate con una forchetta: l'acqua è davvero caldissima e l'impasto, di conseguenza, scotterà parecchio. Poi iniziate ad usare le mani. Quanto tutto è abbastanza morbido e compatto (aggiungete, a seconda del caso, altra acqua caldissima o altra farina), iniziate
a stendere dei lunghi serpentelli di pasta del diametro di una penna, che poi taglierete a tocchettini lunghi due o tre centimetri, che poi passerete uno alla volta sul retro di una grattugia…che al mercato mio padre comprò. Vanno bene anche i rebbi di una forchetta.
È più facile a farsi che a dirsi. Il segreto è che l'impasto non sia troppo appiccicoso e che l'acqua che usate sia caldissima, altrimenti la pasta risulterà sempre troppo callosa.
Io non ho la pazienza di nonna che si metteva a cucinare il ragù dal sabato, così ho fatto soffriggere del macinato, ci ho aggiunto degli champignon tagliati sottili sottili e a parte ho fatto una piccola pseudo-fonduta con latte, formaggio grana e formaggio fresco. Ho condito i cazzarielli così, aggiungendo un pizzico di noce moscata alla fine.
Come i loro cugini gnocchi, anche i cazzarielli sono cotti quando salgono a galla a dirvelo.

sabato 1 ottobre 2011

"Che ci vuole?"

Attenzione: questo testo contiene solo una parte dello scenario reale. E per fortuna che è solo una parte.

"Lavoro di concetto": mansione di tipo intellettuale.
Vuol dire che se svolgi "lavoro di concetto" la tua fatica dà come prodotto sostanzialmente un'idea, che può avere diverse forme di realizzazione pratica (un manifesto, una campagna pubblicitaria, un calendario, un programma televisivo, radiofonico o uno show in piazza, una locandina, un video, una foto, un sito web, un evento, e così via). Ma è sostanzialmente l'idea che c'è alla base, il vero prodotto del tuo lavoro.
La cosa che veramente accomuna tutti i Lavoratori di Concetto è essersi sentiti dire almeno una volta la seguente frase: "…e che ci vuole…?".
E tante volte ti sei chiesto, Lavoratore di Concetto, perché - dopo aver lavorato alacremente su un'idea - il cliente di turno ti chieda di cambiare pressoché tutto quanto (su come ciò avvenga servirebbe un altro post), dicendoti "E sì, tanto che ci vuole?".
Bene, te lo dico io perché ti succede: perché tu non spacchi la legna, caro mio.

Albert Einstein ha detto: "La gente adora spaccare la legna. In quest'attività i risultati si vedono subito".
E' una frase molto utile anche a chi fa lavoro di concetto. Se tu fossi un boscaiolo, caro Lavoratore di Concetto, nessuno si sognerebbe mai di dirti "Che ci vuole?". Perché si vede; poche cose sono più tangibili di una bella sequoia. Una sequoia non dura trenta secondi, non si apre con un click del mouse, non si può appallottolare e buttare nel cestino, non si esaurisce in una serata. Una sequoia è graaaande! E se qualcuno vede una pila di ciocchi di sequoia alta otto metri, non può che esclamare "Accidenti, che faticaccia ha fatto il boscaiolo!". E una settimana di lavoro è più che spiegata e giustificata e apprezzata.
Ma tu, Lavoratore di Concetto, vai dal tuo cliente con il tuo bel tascapane Eastpak dentro cui metti un portatilino, un taccuino, una penna e una bottiglietta d'acqua. E parli. Parli e spieghi un'idea. Un'idea che spieghi in quindici minuti, anche se tu ci hai messo una settimana per fartela venire, prendendo appunti in autobus, al cinema, a letto, nella pausa pranzo, ovunque ti venisse un pezzetto di idea in mente. Scartandone mille, tenendone da parte una ventina, lavorandoci attorno fino ad ottenerne una che ti sembrasse buona e degna del lavoro che ti hanno assegnato.
Ma ci metti un quarto d'ora a dirla. E chi ti ascolta non vede sequoie. Chi ti ascolta, ti sente parlare un quarto d'ora e pensa che tutto sommato tu, in un quarto d'ora, possa concepire una cosa ancora più figa. Perché, tanto, che ci vuole?



P.s. A me i boscaioli stanno molto simpatici, comunque. E ho molto rispetto per il loro lavoro.
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