giovedì 6 maggio 2010

Ti amo, splendida cornice


Ero piuttosto piccola, quando alla tv vidi le fiamme avvolgere un enorme edificio e tingere di rosso il cielo di una città nella quale non ero mai stata. Vivevo a centinaia di chilometri di distanza da quell’incendio, e per me si trattava soltanto di una scena impressionante tanto quanto quelle dei film. Diciotto anni dopo, quell’edificio è finalmente risorto dalle sue ceneri, come la più lenta delle fenici e al contrario di un'altra Fenice finita in fiamme e risorta invece in uno schiocco di dita. Il Teatro è stato restituito alla sua città: dopo mille polemiche, dopo oramai dieci anni che vivo a Bari e mi sono chiesta se sarebbe rimasto impacchettato per sempre e dopo un imbarazzante conto alla rovescia in piazza, che – allo scoccare dello “zero” – ha cominciato a contare in avanti finché i lavori non sono finiti. Splendida cornice è un’espressione che usano al massimo in tre al mondo, oramai. Uno di questi è Daniele Piombi. E un’altra sono io. Perché il Petruzzelli è diventato da subito la splendida cornice di qualsivoglia evento della città. Mostre, conferenze, persino convegni del più rosso dei sindacati. Come negarsi una splendida cornice, già che c’è. Ci hanno messo diciotto anni per rimetterlo in sesto, tanto vale usarlo: “Sta pagato”, come si usa dire da queste parti. Non è “il salotto buono dei baresi”, no. È la splendida cornice, che – per fortuna – dona un’allure di splendore anche a quelle cose che di splendido hanno ben poco. È commovente l’accoglienza riservata a chi entra al Petruzzelli. Ogni volta che mi capita di andarci, non trovo parola più adatta. Spesso ci vado per lavoro, e quindi ho a che fare anche con l’ufficio stampa; fresco, gentile, efficiente. E, attenzione, giovane. E poi, i valletti e le hostess. Per molti sarà “normale”. Per me non è così “normale” essere accompagnata in ogni passo. Dopo un po’ diventa anche surreale, trovare un valletto che mi indica la strada, girare l’angolo del corridioio che mi è stato appena indicato, e trovare un altro valletto che mi conferma che devo proseguire diritto per altri sei metri; dopodichè troverò un valletto che mi dirà che me la sto cavando alla grande. Alla fine troverò una hostess che mi farà coraggio, e poi un’altra che finalmente mi accompagnerà alla mia poltrona e si assicurerà che io mi sieda e che l’allineamento dei pianeti non disturbi la mia visuale sul palco. In attesa che inizi lo spettacolo, mi sistemo i capelli specchiandomi nel parquet. Solo il pavimento della mia casa di Barbie era così pulito. Le signore “In pelliccia finché non mi si scioglie via di dosso” si accomodano accanto ai loro mariti “Sono un consumato melomane”. Nei palchetti spesso ci sono i ragazzi “Con la scusa del teatro domani niente interrogazioni” e le ragazze “Finalmente i miei compagni vedranno come sono figa quando mi tiro a lucido”. Qua e là sparuti e sempre increduli “Finalmente posso andare all’opera nella mia città” e i deliziosi “Io me lo ricordo, prima dell’incendio. Quando suonavo il violino nell’orchestra”. Nell’intervallo è quasi d’obbligo una capatina in bagno. Anche se non ti scappa, ne fai un po’ per educazione: sta pagato. Dopo di che, alla fine dello spettacolo, c’è qualcuno che ti aiuta anche nella remota possibilità che tu sia così rimbambito da non trovare la retta via per l’uscita del teatro, indicata da seicento frecce ogni dieci metri. Quando sei finalmente nel foyer, pieno di gente che sorride ancora ebbra di musica, sia classica, lirica o rock (ebbene sì, il Petruzzelli in un paio di occasioni si è convertito al rock e gli dona), pensi che forse l’Italia non è così terribile, che forse l’Italia funziona. Le persone si mettono in fila, la gente sorride e ti aiuta, tu paghi e ti offrono uno spettacolo di altissima qualità. Sei più ebbra di questa consapevolezza, forse, che dello spettacolo in sé. Poi esci, e un soffio d’aria primaverile solletica la seta della gonna che ti accarezza le gambe. Sistemi il soprabito e controlli la temperatura alzando lo sguardo sul termometro del palazzo della Banca Popolare di Bari, e per osmosi ti stringi un po’ nel soprabito. La brezza porta alle narici un po’ del profumo del mare e il retrogusto di un profumo maschile che appartiene a una delle tante nuche che ti stanno davanti, pazientemente in attesa di un taxi, di un passaggio o semplicemente di una decisione su dove proseguire la serata. Poi, un’auto passa col rosso, da un’altra volano giusti quanto incomprensibili improperi. Una delle signore “In pelliccia finché non mi si scioglie via di dosso” ti spinge con insospettabile forza, suo marito accende un sigaro scegliendo proprio la tua faccia come destinataria della prima nuvola di fumo. Sali al volo in macchina perché c’è traffico e chi ti è passato a prendere rischia il linciaggio se si ferma un secondo in più per aspettarti. E mentre lo sguardo ti cade su un’edicola, ti accorgi che qualcuno sta già pensando a come toglierti, con apposito decreto ministeriale, anche la pia illusione che l’Italia – almeno in teatro – funzioni.
C’è una macabra ironia nel fatto che un Paese funzioni soltanto nel regno della messinscena.


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