giovedì 29 agosto 2013

Hai chiuso tutto?

Io a volte mia madre non la capisco. Una madre normale arriva fino a “Chiudi acqua, luce, gas e tapparelle”, la mia arriva fino a “Tappa i lavandini”.
«Hai chiuso il gas?»
«Chiuso.»
«Staccato la corrente?»
«Staccata.»
«Chiuso l’acqua?»
«Chiusa.»
«Hai tappato lavandino, vasca, bidet, lavabo?»
«Eh?»
«Devi mettere i tappi, devi tappare tutto.»
Ma perché? «Gli insetti», mi ha detto. L’ho chiamata solo per dirle a che ora dovrà passare a prendermi in stazione, e mi ritrovo ad ascoltarla mentre mi dice che se non usi l’acqua per tanto tempo, e quindi i tubi restano vuoti e asciutti per giorni e giorni, è possibile che gli insetti ci vadano a fare le loro passeggiate. Ed è possibile che, passeggiando passeggiando, vadano a finire nel tubo del tuo lavandino e arrivino nel tuo bagno, invitando i loro amici a stare nella tua casa.
Non ci posso credere: insetti che risalgono i tubi fino al quinto piano per venirsi a installare nei cessi degli altri. Roba da non credere; ma nel dubbio, tappo tutto.
Prendo la catenella con la paperella gialla da un lato e il tappo dall’altro e chiudo la vasca; tiro la leva di bidet e lavandino, e il tappo d’acciaio scende e si chiude. Vado in cucina e recupero il tappo di gomma nera, quello che uso quando devo riempire il lavabo le sere in cui non ho voglia di lavare i piatti e li tengo a mollo, illudendo la mia coscienza che sia necessario temporeggiare così, al nobile scopo di eliminare lo sporco impossibile. Chiudo, chiudo tutto. Poi chiudo finalmente il rubinetto generale dell’acqua, ricontrollo per la centesima volta di aver chiuso il gas, stacco il contatore della corrente e vado via, lasciando la casa buia e senza alcun tipo di alimentazione, e dando alla porta un numero di mandate che credo non abbia mai subìto nemmeno in fase di collaudo.
Via dalla città, via dal lavoro, via dai problemi. Sarebbe bello se queste cose andassero a braccetto sul serio; e invece i problemi me li ritrovo comunque sul groppone, ma almeno non dovrò svegliarmi alle sei, cosa che in realtà andrebbe anche bene, se non fosse che prima mi sveglio e prima inizio a farmi seghe mentali perlopiù inutili.
I giorni di ferie scivolano via come la stretta di mano delle persone che incontro, nella costante fuga dal caldo, dalle orge sabbiose, dal sole perennemente a picco, dalla musica perennemente di merda, dal rumore perennemente troppo forte, dalla gente perennemente sovraeccitata e vestita senza rispetto per la decenza e la propria conformazione fisica.
Per reazione a questo chiasso, mi addormento ovunque, ed è così che arriva il momento di tornare a casa.
Sette mandate. Non avevo idea che fosse possibile darle, sette mandate, a una porta che non proteggesse come minimo un caveau di banca.
Mi accoglie il bagliore azzurrognolo della tv accesa nel buio della casa sigillata. Come diavolo ho potuto lasciare la tv accesa prima di partire?
«Infatti l’ho accesa io.»
Un urlo cavernoso, secco, breve mi esce dalla gola, come se fosse lo schizzo sonoro di tutto lo spavento che si può provare nel rientrare a casa propria e trovare un estraneo sul divano a guardare la tv. L’urlo dura meno del necessario, perché non riesco più a esprimere coi suoni il terrore di fronte al fatto che l’estraneo in questione è una blatta. Una blatta arancione scuro, alta almeno un metro e sessanta. È seduta sul mio divano e le antenne toccano i miei quadri, sembra che li stiano accarezzando. Se ne sta lì, con le zampette incrociate. Seduta sul mio divano, porca vacca. È incredibile, ma sta sorridendo. Come se il fatto di avere una blatta di sessanta chili sul divano di casa non fosse già abbastanza incredibile.
Mi sorride, e mi invita a sedermi con lei. Riprendo a urlare. Lo so, è un po’ monotematica, come reazione, ma non riesco ad averne altre.
«Smettila di urlare, tanto non ti sente nessuno: è Ferragosto.»
Chiudo la porta alle mie spalle, per una specie di riflesso istintivo alla parola “Ferragosto”, sinonimo di topi d’appartamento. Resto accovacciata vicino alla porta, a due metri dal divano, a due metri dalla blatta gigante che ci è seduta sopra.
«Guarda che mica voglio farti del male, cara.»
«Io ho chiuso tutti gli scarichi. Come hai fatto, ho chiuso gli scarichi.»
«Sono un po’ grande per gli scarichi, non credi?»
Continua a sorridere, gioviale come un agente immobiliare, ma con le antenne invece della cravatta.
«Sono entrata dal water. Mica succede solo nei film, sai? Sì, l’ho visto anch’io, quel Trainspotting lì, e per un pelo alla fine del film non sono stata schiacciata da un ragazzino identico al protagonista.»
«Schiacciata? Tu? Ma se sei enorme!»
«Ehi, non alzare la voce, non è educato. E non darmi dell’ “enorme”, non è educato nemmeno questo. Non sono sempre stata così…com’è che ti chiami?»
Balbetto il mio nome, e in un moto assurdo di bon ton le chiedo il suo.
«Checcazzo.»
«Ehi!»
«No, dico, mi chiamo Checcazzo. Fin da quando ero piccola e me la facevo fuori dai tombini, tutti quanti – appena mi vedevano – urlavano «Checcazzo!». Quindi ho deciso di adottarlo come nome, così mi sento benvoluta e accolta da tutti. Sai, del tipo «Ehi, Checcazzo!», così, con la “C” maiuscola. Se t’imbarazza, comunque, puoi chiamarmi Checca e basta.»
Una goccia di sudore freddo mi si forma al centro del petto e scende lungo il torace, fino all’ombelico. La sento ghiacciarsi lì, raggiunta presto da tante altre goccioline. Non riesco a smettere di guardare le sue antenne, che accarezzano ancora i miei quadri. Intanto sta facendo oziosamente zapping, si gratta quella che a occhio e croce dovrebbe essere la fronte, e scaccia una zanzara. Con un’altra zampetta ancora, si accarezza la panza. Una discreta panzetta che sembrerebbe frutto di anni di allegre bevute di birra.
«Avanti, cos’è che ti spaventa tanto? Sei pallida come se avessi visto la morte in faccia! Non pungo, non mordo, non sono velenosa, non ti salto addosso – francamente non sei il mio tipo e mi fai anche un po’ schifo…insomma, cos’è che ti terrorizza, sei sudata. E quando sudate, voialtri mi fate ancora più impressione, dio mio.»
«Le antenne.» dico, tutto d’un fiato. Sbuffa, la blatta Checcazzo, si guarda attorno, muovendo ancora di più quelle robe lunghe lunghe e spaventose. Il panama; sta puntando il mio cappello. Si afferra le antenne, le arrotola velocemente come se dovesse farsi uno chignon, e si infila il cappello.
«Ecco, non si vedono più: ti faccio meno paura, così?»
È pur sempre una blatta. Di sessanta chili. Che parla. Però ci sta provando, si sforza, anche se credo che – se dovessi sopravvivere a quest’incontro – il panama lo brucerò. In ogni caso ricambio la sua buona educazione con la bugia che sì, va un poco meglio, ora che (la blatta parlante di sessanta chili che ha occupato casa mia) si è coperta le antenne col (mio) cappello. 
«Adesso mi dici che ci fai qua? Perché sei così enorme e tutto il resto?»
«Ancora con questo enorme! Sono a dieta, non infierire, ti prego…» piagnucola, senza badare al fatto che mi riferisco al suo essere oggettivamente grande, come insetto. Niente, ogni volta che pronuncio la parola enorme per lei è come se le stessi dando della chiattona.
«Va bene, scusa…mi dici almeno che ci fai a casa mia?»
Tira su col naso, usa una delle sue zampette per asciugarsi le lacrime, si tocca di nuovo la pancia, imbarazzata, e riprende:
«È così che deve andare, cara mia. Stiamo pian piano prendendo il nostro posto. Andrà così: noi verremo a vivere in superficie, diventando sempre più proporzionati all’ambiente…vedi, cara, così avresti dovuto dire, “proporzionata all’ambiente”, non “enorme”. Comunque, dicevo, noi verremo a vivere in superficie, e voialtri andrete a stare in strada e nei tombini. Non credo vi adatterete molto, infatti sento già parlare di “fine del mondo”, “apocalisse” e cose del genere. Ma per quel che ne so, potreste anche cavarvela, eh: avete un po’ la tendenza a fasciarvi la testa ben prima di cadere.»
Stavolta inizio a piangere io, ed è uno schifo. Il sudore freddo e le lacrime bollenti. Un cocktail al gusto panico di secrezioni schife a temperature opposte.
E quindi è così che andrà a finire. E a quanto pare sono la prima a saperlo, dato che sullo schermo della tv ancora accesa c’è l’inossidabile Paolo Limiti che racconta di quella volta che Marilyn telefonò a chissà chi per confidare chissà quale segreto sui Kennedy. Se lo sapessero tutti, adesso ci sarebbero edizioni straordinarie ovunque, e probabilmente Bruno Vespa sarebbe già pronto col plastico delle fogne di Roma.
L’apocalisse. Questi avevano pensato a terremoti, inondazioni, incendi, computer rotti, cavalieri scesi da chissà dove, e invece. Blatte. Arrivano loro, andiamo via noi. E non si sa come, dove, in quanto tempo. E perché. Perché le blatte, porca vacca.
«Senti…»
«Dimmi, cara!»
Eh, “cara”, certo... «Ma perché voi? Dico, perché le blatte e non dei gattini, dei koala, dei maledettissimi pony? Eh?»
«Ecco, cara, il fatto è che…non so se dovrei dirtelo. Beh, al diavolo: il fatto è che loro vogliono così.»
«Loro? Loro chi?»
«Sei sicura di volerlo sapere?»
«Sì!»
«Sei proprio titi titì?»
«Eh?»
«No, dico, sei titi titì, titi titì?» titì titì, titi titì, titi titì, titi titì.
Le sei.
La sveglia.
Checcazzo.
Mi alzo e corro in salotto: sul divano non c’è proprio nessuno e il panama è al suo posto sul tavolino.
Vado in bagno per lavarmi il viso con l’acqua fredda.
Prima, però, abbasso il copriwater. Per oggi l’apocalisse può aspettare.


mercoledì 26 giugno 2013

Inutile piangere (sulle uova rotte) - Omelette all'erba cipollina

Piangere è un brutto affare. Soprattutto d’estate. Se questo fosse davvero il migliore dei mondi possibili come dicono, d’estate piangeremmo granite. Al gusto della frutta che uno mangia. Mangi una fetta d’anguria, riguardi Love story, ti commuovi, e piangi granite d’anguria. Sarebbe perfetto. Invece no, si piangono calde, caldissime lacrime indipendentemente dalla stagione. E quindi d’estate è una sofferenza amplificata, e si finisce col pensare che la frase “non ho gli occhi per piangere” non sia poi così triste. A volte sarebbe davvero bello non avere gli strumenti per farsi un pianto. 
Il contorno è una semplice insalata di 
valerianella - così CI DIAMO TUTTI UNA CALMATA -  
pomodorini, brunoise di sedano, e granella di nocciole.
In molti casi, reprimere lacrime, groppi in gola, magoni, non è salutare. Sfogarsi fa bene, se lo si fa con discrezione: "sincero è il dolore di chi piange in segreto", diceva Marziale.
Ma pure piangere stanca. Allora ogni tanto è meglio sfogarsi in altro modo, mettendosi a cucinare qualcosa di buono che non dia spazio alle lacrime. Ecco perché la Natura, per farsi perdonare l'averci negato lacrime di granita, ci ha dato l’erba cipollina. Un gusto delicato, dal sapore vicino a quello della cipolla, ma senza alcun effetto collaterale sui nostri occhi: niente lacrime.
Quindi ne ho tagliuzzata un po’ e l’ho messa in una ciotola con due uova, un po’ di sale e pochissimo pepe bianco, e ho sbattuto il tutto con una forchetta. In un’altra ciotola ho mescolato ricotta, gamberetti, un po’ di zucchina grattugiata, (sale, pepe) e ancora un po’ d’erba cipollina. 
Ho messo su fuoco medio una padella antiaderente unta d’olio extra-vergine d’oliva e – una volta calda – ho calato il composto di uova e erba cipollina, assicurandomi che si stendesse in maniera uniforme e piuttosto sottile. Quando era quasi del tutto rassodato, ho sistemato su un lato il composto a base di ricotta, e ho chiuso con attenzione l’omelette a semicerchio.
I francesi dicono che "il faut casser des œufs pour faire une omelette": bisogna rompere le uova, per fare un'omelette; per quanto lapalissiano, è un ottimo promemoria di come – per ottenere molte delle cose più buone della vita – si debbano affrontare sforzi, strappi, sacrifici, rotture. 

E se, quando la state richiudendo, pure l’omelette vi si (s)casse, se proprio non vi riesce di chiuderla bene, non mettetevi a piangere, e trasformate tutto in “uova strapazzate con ricotta, gamberetti e verdure”. È buonissimo lo stesso. Non si piange sul latte versato, figuratevi se si piange sulle omelette rotte.

giovedì 20 giugno 2013

J'accuse (o "In difesa del panzerotto")

La libertà d’espressione è una cosa sacrosanta. Ma è anche vero che ci sono confini che non vanno superati. Perché se no, signora mia, si perde la bussola. Non è che siccome puoi fare quello che vuoi, allora puoi spostare Greenwich di un migliaio di km più a destra. O disegnare le sopracciglia alla Gioconda con l’UniPosca. O metterti a vendere panzerotti in un fast food.
Non tutti sanno cosa sia un panzerotto, ma questa è una piccola manifestazione d’apocalisse che possiamo comprendere e financo limitatamente perdonare, purché vi si rimedi in fretta.
Il panzerotto (detto in alcuni luoghi anche panzarotto) non è semplice cibo. Tecnicamente è un semicerchio di pasta ripieno di pomodoro e mozzarella (nella sua variante classica) e poi fritto, oppure cotto in forno.
Monsieur il Panzerotto, preparato dalle amorevoli mani
della signora Ammodomio
Ma il panzerotto è molto più di questo: è un simbolo. Sono per metà pugliese e per metà campana, so di cosa parlo. Il panzerotto è amore, è uno scrigno degno delle migliori pagine di Proust. Quando addenti un panzerotto, vieni sommerso – oltre che dalla colata lavica del ripieno – dall’essenza del Sud, dalle serate in compagnia di amici o parenti a guardare le partite dei mondiali, dal ricordo di quella volta che per ammazzare tutto il dolore niente fu più forte del fritto, e delle innumerevoli volte in cui il filo della mozzarella calda è stato il segno tangibile e ustionante del legame con le persone che ami di più, e dal ricordo della voce di nonna che ti chiede se lo vuoi con la ricotta o senza, e tu rispondi “Tutt’e due”.
Per questo, soprattutto, vacillo davanti alla trovata di uno dei più noti fast food del pianeta, che per discrezione chiameremo Mc Fonald’s, che ha deciso di mettere sul mercato un abominio dandogli il nome di Pizzarotto, deprecabile ibrido tra pizza e panzerotto. Il deprecabile ibrido, stando alle recensioni, altro non è che una specie di schiacciatina con dentro infilati del formaggio a pasta filata e salsa di pomodoro random. Senza scendere in dettagli sulle proprietà gustative dell’oggetto, basta guardarlo per capire che tutto è, fuorché un panzerotto. O una pizza. O una via di mezzo tra entrambi.
Il panzerotto vero si impone con la sua statuaria semplicità, il suo nome deriva proprio da “panza”, quindi è bello rigonfio, ti conquista con la sua bellezza piena e carica di promesse. Il panzerotto è come Sophia Loren. Non è una soletta gialla con accidentale contenuto.
Non lo si prepara tutto eoni prima, tenendolo chissà come in sospensione criogenica e facendolo rinvenire al momento. Lo si prepara con amore, per l’impasto ci vuole tempo, e solo all’ultimo si farcisce e si frigge. Lo si prepara così, ad esempio. 
E il panzerotto vero non lo puoi mangiare seduto ai tavolini di un fast food. È tra le prime cose che devi imparare quando arrivi a Bari, come si mangia il panzerotto.
Per evitare, infatti, di essere sommersi dalla succitata colata lavica di ripieno di (vero) pomodoro e (vera) mozzarella, è importantissimo assumere la posa del panzerotto:
  •         in piedi
  •         gambe divaricate quanto l’ampiezza delle proprie spalle
  •         panzerotto ben impugnato con entrambe le mani e ben avvolto nella sua carta d’ordinanza (non importa che sia oleata o no: col panzerotto tutto diventerà oleato, pure voi)
  •         schiena protesa in avanti di 20°
  •         inevitabile conseguente culo a papera

In questo modo sarete certi di non essere feriti dal ripieno, di godere appieno dell’esperienza del panzerotto, e soprattutto d’integrarvi perfettamente con gli autoctoni. Soprattutto se vi lasciate coinvolgere nel consumo del panzerotto al cofano. Il panzerotto al cofano è il rito secondo il quale si arriva sul posto in macchina, si parcheggia, si comprano i panzerotti, e si consumano fuori dal locale. Siate scaltri e non fatevi riconoscere come stranieri: siate pronti e sicuri di voi nel sistemare il vassoio coi panzerotti sul cofano (perché il calore del motore appena spento li tiene caldi) e la Peroni d’ordinanza sul tetto della macchina, così si tiene fresca e l’altare guadagna completezza.

Mc Fonald’s però cerca di farcelo piacere in tutti i modi, questo scempio. Con delle foto promozionali bellissime. Ma forse a Mc Fonald’s sfugge che chiunque può fotografare le cose (come stanno) e metterle poi in internet. Giudicate voi.
A sinistra, una foto promozionale del pizzarotto. A destra, una foto di com'è davvero (grazie all’eroico sacrificio di Scatti di Gusto).

E, infine, giudicate un’ultima cosa. Il pizzarotto costa due euro.
Sorbillo, una delle migliori pizzerie di Napoli (e dunque una delle migliori pizzerie del mondo), fa pagare un autentico, pienissimo, lussurioso calzone (bello grande) quattro euro.
E Cibò, uno dei punti di riferimento del panzerotto barese, fa pagare un perfetto panzerotto fritto tra 1 euro e 1 euro e 50.

Voi, con cinque euro in tasca, cosa fareste?
(Le mie amiche già lo sanno)

(ph. Simona Ardito)

sabato 8 giugno 2013

Cose divertenti che non farò mai più (?) - Quella volta che Bruce Springsteen voleva farci secchi

Per quale ragione una sociopatica dovrebbe infilarsi in una bolgia di sessantamila persone, e un pigro ostinato dovrebbe salire gradini e gradini per dieci minuti buoni e ballare per tre ore e mezza? Una delle pochissime ragioni – se non forse l’unica – per simili atti contro natura è la musica.
È una lunga storia, quella del rispondere sì al mio amico Sergio quando – sei mesi fa – mi ha chiesto se volessi accompagnarlo al concerto di Bruce Springsteen, il tre giugno, a San Siro. 
Un sì che è diventato una delle cose divertenti che non farò mai più (?).
Per giorni abbiamo controllato il meteo per il 3 giugno, e sembrava avrebbe dovuto essere l’unico giorno di basse temperature e piogge abbondanti di tutta la settimana. Esco di casa attrezzata, col mio bell’impermeabilino rosso, e un maglioncino in borsa che-non-si-sa-mai, e naturalmente ci sono trenta gradi, e un sole che spacca le pietre. 
Poco male, penso. Finché non dobbiamo infilarci dentro la metropolitana piena come fossimo a Tokyo, grazie al fatto che c’è anche un provvidenziale sciopero dei mezzi pubblici e tutti hanno pensato di prendere l’ultima metro disponibile per arrivare a San Siro. Che telepatia, questi springsteeniani.
Forse non tutti sanno che lo stadio Giuseppe Meazza non proietta un’ombra. Probabilmente ne proietterà una durante tutto l’anno, ma il 3 giugno 2013, dalle sei alle sette di pomeriggio, con una temperatura vergognosamente alta, e il sole che spacca le pietre di cui sopra esso no, non ha proiettato alcuna ombra.
In balia di tutto ciò, in un raro momento di lucidità, decidiamo di cercare il nostro ingresso e metterci in fila per entrare: almeno sugli spalti ci sarà ombra e potremo sederci.
“Dai, Sergio, troviamo la coda della fila e iniziamo…”, dico percorrendo a ritroso un serpentone lunghissimo.
Finché non vedo una faccia conosciuta. No, nessun componente della E Street Band è in fila per entrare: semplicemente inizio a rivedere facce che avevo già visto in coda. Dopo qualche secondo di smarrimento mi rendo conto che siamo davanti a un classico esempio di coda che si morde la coda: questa fila è a forma di “8”, non ha alcun senso e probabilmente questa gente morirà qui, aspettando di entrare a San Siro in un torrido pomeriggio di giugno. Avendo posti numerati, per giunta, il che rende tutto ancor più insensato.
Sarei morta lì anch’io, se Sergio non mi avesse proposto qualcosa che è totalmente contro il regolamento che ho affisso alle pareti della mia scatola cranica: saltare la fila.
Per saltare una chilometrica fila nonsense di springsteeniani in attesa sotto il sole occorrono:
  •        un paio di occhiali da sole con lenti scure
  •        una massiccia dose di faccia ignorante
  •        un complice
  •        mappe, volantini, generici fogli di carta da tenere in mano

Iniziate a camminare con lentezza, assieme al vostro complice, verso metà dell’ultimo troncone di fila prima dell’ingresso. Indossate i vostri occhiali scuri, la vostra faccia ignorante, e fingete di leggere qualsiasi foglio di carta stiate tenendo in mano. Guardatevi attorno come se l’ultimo vostro pensiero fosse la fila. Ora accostatevi in maniera tangente alle persone in coda, ma non intrufolatevi ancora. Siate pazienti e continuate per qualche metro a camminare tangendo la fila, e ignorandola, scambiando chiacchiere col vostro complice e guardando da tutt’altra parte. Quando siete arrivati quasi all’inizio della fila (è importantissimo non tentare l’arrembaggio alla testa, sarebbe troppo palese e verreste subito scoperti e cacciati in fondo), fate dei piccolissimi passi di lato, inserendovi in uno spiraglio ampio a sufficienza e continuando a fare gli gnorri. Questa è la parte più importante: non attentare alla testa, e continuare a fare gli gnorri per un po’, come se foste finiti in fila totalmente per caso e non ve ne importasse nemmeno poi tanto. Restate così, ottusi e ignoranti, per qualche minuto ancora, e il gioco è fatto.

Noi siamo stati aiutati anche dal fatto di esserci piazzati davanti a dei francesi che litigavano tra loro. Come padroni di casa, ci siamo anche sentiti in completo diritto di metterci davanti a loro. Non ha senso, è un ragionamento molto meschino, ma vi assicuro che al momento mi ha convinta a sedare ogni senso di colpa.
Il mio amico Sergio è il tipo di persona che prende il motorino per fare due isolati. Nel motivarlo a salire fino al secondo anello di San Siro mi sento come quando Duke e Paulie motivano Rocky a spaccare la faccia a Ivan Drago. Ci sistemiamo finalmente sui nostri bei seggiolini rossi numerati, e ci godiamo per un po’ il colpo d’occhio sullo stadio che inizia a riempirsi in ogni ordine di posto. 
Quando Bruce Springsteen arriva sul palco e inizia a suonare, ci metto poco a capire perché lo chiamino “The Boss”. Io sarei collassata chiedendo pietà e cinque minuti di pausa già dopo la terza canzone. Quello invece ci tiene vivi, attivi e felici per tre ore e mezza. Tre ore e mezza senza fermarsi un secondo, senza annoiarsi né annoiare, correndo, ballando, cantando, suonando, parlando, e zompando sui pianoforti. 

Ok, sì, non zompa più come dieci anni fa, è più un salirci sopra in fretta. Ma il signore in questione ha più di sessant’anni. E dopo il concerto, e dopo la pantomima di “Ok dai usciamo ancora e suoniamone altre”, esce ancora e suona una versione potenzialmente fatale di Twist and shout e di Shout, tenendo in mano sessantamila persone come fossero i suoi pupazzetti, facendoci fare quello che voleva, ballare, saltare, cantare, stenderci a terra – con somma gioia di Sergio che, a questo punto, è ridotto a un’ameba – e rialzare a fare i cretini per altri venti minuti ancora. Voleva ucciderci, è chiaro.


Ma alla fine ha avuto pietà di noi, e della povera E Street Band, che ha mandato a riposare per poi tornare sul palco, da solo, a farci venire copiosi lucciconi con una versione di Thunder road da brividi. O forse era la febbre, non lo so.
Da San Siro si esce vivi, per fortuna; gli springsteeniani mi sono sembrati persone carine. Intere famiglie – tre generazioni tre – muovono imbambolate verso le uscite, con le consuete file all’italiana, ovvero un imbuto di gente ammucchiata alla bell’e meglio.
E se per arrivare a San Siro ci abbiamo messo poco più di mezz’ora, camminata sotto il sole inclusa, al ritorno pensiamo di prendercela comoda, e usare un bus ATM che ci porti in metro e poi a casa. Risparmieremo tempo e fatica, abbiamo pensato, scaltre faine.
Per tornare a casa ci ho messo due ore.
Il bus dell’ATM (con le sospensioni rotte, tanto per farci pure male, come se non bastassero la folla e il caldo) altro non è che il set di un film horror, di quelli che iniziano con un momento felice, tipo – che so – la fine di un bellissimo concerto, e poi tutti salgono allegri sul bus, e poi capisci che l’autista è un pazzo omicida che li sequestra tutti e non li fa mai più scendere e li tiene lì a morire di caldo e di stenti fra atroci sofferenze. Ci tiene ostaggio per le vie di mezza Milano, facendo inspiegabilmente il percorso più lungo per portarci alla metro (“inspiegabilmente” si fa per dire: vuole ovviamente ucciderci), ulteriormente rallentato dal traffico infernale del post-concerto.
Ottima idea stare per ore sul bus della morte per evitare di camminare dieci minuti, ottima idea davvero.
Con questa trovata geniale, siamo riusciti a prendere una sola delle due metro necessarie a tornare a destinazione, ma almeno ho fatto in tempo a vivere la fondamentale esperienza di un francese ubriaco che ti si spalma addosso mentre tu cerchi di non toccare nessuno perché sono tutti sudati da fare schifo (te compresa, ma mi concederete che il sudore di un estraneo francese ubriaco mi faccia più schifo del mio). Ci siamo dunque giocati l’ultima metro, e solo dopo una sana botta di zuccheri fornita da provvidenziali caramelline gelée ritrovate in borsa, si è trovata la lucidità necessaria a chiamare un taxi (che ovviamente aveva le sospensioni rotte pure lui) che ci ha portato ai rispettivi letti.
Sergio (al suo quindicesimo concerto di Springsteen) dice che una fatica del genere non la farà mai più.
Io non lo so. Magari la prossima volta mi porto più caramelle.



mercoledì 22 maggio 2013

Le polpette e l'immortalità dell'anima

Quella del tritacarne è un'immagine che rende perfettamente un susseguirsi di avvenimenti forti, positivi o negativi che siano, che in qualche modo sconvolgono il nostro essere e ci fanno sentire storditi, fuoriposto, rasi al suolo, con le coordinate tutte scombussolate. 
Ma non è necessariamente la fine di tutto; il tritacarne può essere anche un inizio. 
Magari l'inizio di cose buone, come le polpettine alla vodka e aneto. 

L'aneto fresco non è facilissimo da reperire, ma forse non tutti sanno che lo si può sostituire con l'erbetta che sta sui finocchi, perché hanno un sapore molto simile e quest'ultima è ben più semplice da trovare al supermercato.
Gente che anela l'aneto.

Ma procediamo con calma, mettendo a bagno 160gr di pane raffermo sbriciolato in 125ml di panna, finché il liquido non sarà assorbito del tutto. Poi si aggiungono 350gr di manzo finito nel tritacarne e 350gr di maiale, anch'esso traumatizzato dal passaggio nel tritacarne. Si amalgama tutto con un uovo, una cipolla tritata finemente, un pizzico abbondante di noce moscata, sale, pepe bianco (e se volete aggiungere qualche altra spezia, tipo il timo, in piccola quantità, fatelo pure: siamo passati nel tritacarne, possiamo permetterci di tutto). 

Con questo bell'impasto amorfo si fanno delle polpettine molto piccole (diametro di circa 3cm) e si sistemano su una teglia foderata di carta da forno; ma non fatevi ingannare: non si mettono in forno, bensì in frigo, a riposare per almeno un paio d'ore. 
Nel frattempo, come al solito vi consiglio di guardare un buon film. 


We don't need no thought control, but we definitely need polpette


Dopo il film, si scaldano in padella un cucchiaio d'olio e uno di burro a fuoco medio (preferibilmente non in padella antiaderente) e ci si cuociono le polpettine per quattro-sei minuti, finché non saranno ben dorate. Poi si tolgono dalla padella e si tengono da parte, guardandole per qualche secondo con moltissimo amore.

Tornando ben concentrati sul sughetto che si è formato in padella, si aggiunge ancora un cucchiaio di burro e uno di farina e si amalgama, versando anche 435ml di brodo di carne (caldo) e 60ml di panna, facendo spiccicare tutti i pezzettini di polpettine che sono eventualmente rimasti attaccati sul fondo. Per completare la salsina, si aggiungono un cucchiaio e mezzo di aneto tritato e tre cucchiai di vodka, mescolando in continuazione (magari con una frusta) fino a formare una succulenta cremina senza grumi. 
Ora facciamo tornare le polpette (coi loro succhi) in padella e lasciamole cuocere in questa salsa per una decina di minuti ancora, aggiungendo altri due o tre cucchiai di vodka
Si guarnisce infine con altro aneto fresco. 

Sarà, ma secondo me non tutti i tritacarne vengono per nuocere.  

mercoledì 1 maggio 2013

Ma di lavoro che fai?

Che bello, fai la radio! Ma di lavoro che fai? 
Frase tiracazzottoni che tutti quelli che lavorano in radio si sono sentiti porre almeno una volta nella vita.

Oggi è il primo maggio, Festa del Lavoro. E oggi è il mio primo giorno senza lavoro. Sì, perché - nonostante i luoghi comuni che indicano "Quelli che fanno la radio" come una manica di cazzeggioni - la radio era il mio lavoro. Ci ho campato (assieme ad altri piccoli lavori, perché signoramia di questi tempi chi te lo dà uno stipendio che basti da solo ad arrivare alla fine del mese) per anni. E, se qualche beota avesse mai avuto il dubbio che il lavoro in radio fosse meno valido o dignitoso di altri, posso mostrargli la mia lettera di licenziamento: se ti licenziano, vuol dire che sei un lavoratore. Un mantenuto difficilmente riceve il benservito con raccomandata a mano. 

Molti hanno inveito contro questa giornata, all'urlo di Festadellavorocosacheiononcellò.
Io dico che serve, invece. Serve avere una giornata dedicata al lavoro (basta non chiamarla "festa", così i polemici a ogni costo possono andare a raccogliere ortiche e smettere di sfrantumarci i bosoni come fossero Oro Saiwa per la base di una cheesecake). 

Dico che questo Paese ha bisogno di parlare di lavoro più che mai. Del lavoro che manca, del lavoro che logora, del lavoro che non viene pagato quanto vale, del lavoro che si perde, del lavoro che uccide.
Quando il lavoro uccide, si parla di "morti bianche", e io non ho mai ben capito perché si assegni un colore così candido a una cosa così sporca. Spesso si muore sul lavoro perché si sta in condizioni inumane, senza rispetto delle norme che - udite udite - esistono per tutelare i lavoratori, ma che - troppo spesso - vengono ignorate da chi ti dice "O così o niente", o da chi pensa "O così o mi mandano via e io come campo". Uno si alza la mattina, va a lavorare per mantenersi in modo dignitoso, e poi muore. Cosa ci sia di bianco in questo, non l'ho capito mai. Nessuna morte è più nera della morte sul lavoro. 

Vecchia, logora t-shirt sottratta all'armadio di mio padre
Nessun lavoro è più nero di quello sottopagato, pagato sottobanco, non pagato. La colpa spesso è anche dei lavoratori, quelli troppo ligi alla causa, quelli che siccome il lavoro gli piace, non fa niente se sto tre ore in più in ufficio senza farmi pagare lo straordinario: e così la percezione che il tuo lavoro valga qualcosa va a farsi benedire. Lavorare gratis non è lavoro, è volontariato. Si può fare, è encomiabile, ma basta chiarirlo da principio. Il lavoro è quella cosa per cui io ti do il prodotto delle mie capacità, siano esse fisiche o intellettuali, e tu mi corrispondi una cifra adeguata allo sforzo.

Purtroppo spesso si è vittime dell'essere malpagati rispetto alle proprie prestazioni, ed è come essere vittime della malnutrizione. Nonostante la fame, mangi quel che c'è, anche se è poco. Ma non per questo smetti di cercare modi per procacciarti cibo sufficiente. E dunque, non per questo si smette di cercare lavori che gratifichino la propria dignità, o di lottare perché tra fatica e soldi in tasca ci sia un rapporto non dico equo, ma che almeno non rasenti il ridicolo.
Lo si deve a noi stessi, prima di tutto, e poi a tutti gli altri lavoratori o aspiranti tali. Far rispettare la propria dignità è l'impegno necessario a tenere in piedi l'articolo 1 di quella Costituzione che troppo spesso si legge distrattamente, senza badare bene a quello che davvero dice.  

E dunque, seppure avrei preferito continuare ad avercelo, un lavoro, tra tutti i giorni in cui si poteva perderlo e iniziare a rimboccarsi ancora di più le maniche per cercarne un altro nonostante tutto, questo - forse - era il giorno più adatto.


N.B. Il mio lavoro, per inciso, era questo.

domenica 10 marzo 2013

L'uovo (gentile) di Cracco

Il biglietto di scuse di Cracco ai clienti insoddisfatti.
A quanto pare qualcuno è rimasto scontento del servizio nello sciccosissimo, scintillantissimo, costosissimo (aggiungete due o tre –issimo a piacere) ristorante di Carlo Cracco a Milano. A quanto pare, i clienti sono rimasti insoddisfatti anche della qualità del cibo, che è stato loro servito – per l’appunto – in modo frettoloso e scortese. Non sono ancora stata a cena da Cracco (ma sto aspettando l’ok della banca per il mutuo che ho chiesto per finanziare l’avvenimento), ma da quel che si vede sul sito del ristorante, il vero difetto è che le porzioni sono minuscole. Per capire appieno la bontà di una pietanza, occorrono almeno tre bocconi: uno per far acclimatare il palato, il secondo per studiare l’armonia degli ingredienti, e il terzo per abbandonarsi al piacere. Poi si gradirebbe continuare, certo. Ma le porzioni di Cracco non sembrano lasciar spazio a questa pratica; è come se volesse dirci che lui è un genio, e noi siamo dei fessi se non lo capiamo anche solo dall’odore del minuscolo raviolo che abbiamo nel piatto.
Anche questo, se ci pensate, è un po’ scortese.
Benedetta Parodi totalmente in balia
dei suoi ormoni al cospetto di Carlo Cracco.

Perciò, siccome Cracco sarà pure bravo, ma magari non ci sa coccolare come si deve, in attesa di scoprire la verità ci facciamo furbi e prepariamo per conto nostro una delle sue ricette. Perché tra i pregi di Carlo Cracco c’è che non è particolarmente geloso dei suoi segreti (sempre perché tanto lui è un genio a prescindere; tu puoi spiare quanto vuoi, non sarai mai figo come lui), e soprattutto il suo ricettario non è fatto interamente di cose improponibili come quelli di altri chef di cui non facciamo nomi (ok, Vissani. Non mi può mica querelare se penso che le sue ricette siano a dir poco “cosa cacchio hai messo in quel piatto smettila subito”: son gusti). 
Questa ricetta è davvero un prodigio. Sembra una magia, sembra straordinariamente complicata, è fortemente d’effetto, fa riflettere sulla bellezza che si può ricavare dalle cose più semplici, mettendoci fantasia e cura. Ma in realtà è facilissima. Perché, diciamolo, Cracco dev’essere un gran paraculo. Per questo in fondo ci sta simpatico.

Bisogna solo separare il tuorlo di un uovo (molto fresco) dall’albume, e adagiarlo in una coppetta con del pangrattato, e poi ricoprirlo con altro pangrattato. Poi si mette la ciotola in frigo per un paio d’ore. Nel frattempo, Cracco va a umiliare due o tre concorrenti di Masterchef, voi fate qualcosa di più divertente. Poco prima dello scadere delle due ore, preparate il contorno, saltando in padella degli spinaci, magari aggiungendo del bacon croccante, e del pane spennellato con l’albume avanzato e cosparso di semi di sesamo e poi tostato in forno. Le uova si accompagnano bene a un sacco di contorni.  

A questo punto, si toglie dalla ciotola il tuorlo impanato con molta, molta cautela, e lo si cala nell’olio caldo, lasciandocelo per una trentina di secondi, finché non è ben dorato. Non va lasciato troppo, altrimenti si solidifica all’interno e la magia sparisce.
Servire tutto in modo figo e altisonante. Ma soprattutto con tanta cortesia e con estrema calma. È vero quel che si dice in quello spot: certe cose non si possono comprare.
  

mercoledì 27 febbraio 2013

I carciofi non sono persone orribili

"Vous ne risquez pas d'être un légume puisque même un artichaut a du coeur!"
Amélie Poulain 

Una delle prime parole di cui ho imparato l'etimologia è idiosincrasia; il termine indica un'avversione istintiva per qualcosa o qualcuno. Una delle prime cose a cui ho applicato il concetto di idiosincrasia sono stati i carciofi.
Ostili, amari, spinosi, con la barba (gli manca solo una pipa per essere dei perfetti hipster), quell'aria di superiorità verso gli altri ortaggi motivata dal "Siamo così fighi che la gente ci compra lo stesso anche se per pulirci come si deve e renderci commestibili devi seguire un corso di sei mesi da Pai Mei". Ci siamo guardati in cagnesco per anni, i carciofi e io (perché sono sicura che anche io gli stavo antipatica allo stesso modo). A malapena ci siamo tollerati tramite il risotto (perché il risotto è il Kofi Annan della cucina, il risotto rende più amabile qualsiasi cosa: se conoscete qualcuno di insopportabile, buttatelo in una pentola con del risotto bello caldo; funziona). 

Pai Mei controlla che Beatrix Kiddo abbia
il coltello adatto a mondare i carciofi

Poi, forse rabbonita dall'età che avanza, ho deciso di dargli un'altra possibilità. Cosa può succedere, ho pensato, che davvero i carciofi sono persone orribili e li butto via e non ci parliamo mai più? Pazienza.
Così mi sono lanciata in quest'impresa, ascoltando le voci nella mia testa che continuavano a cantare "All we are saying is give carciofi a chance". Voci, per altro, piuttosto insopportabili: avrei mangiato una ciotola di chiodi, pur di farle smettere.
Dopo lunghe sedute psicoanalitiche con chi mi ha consigliato di provarci, persone che mi hanno proposto mille modi di preparare i carciofi, ho deciso: siccome farli fritti era come barare (perché lo sanno tutti che fritta è bòna pure la ciavatta), ho pescato nei ricordi d'infanzia altrui, e ho trovato qualcosa che sembrava semplice e persino vagamente appetibile: i fondi di carciofo alla veneziana.
La prima cosa da affrontare è stata dover pulire i carciofi. Trasformarli da spocchiosi oggetti di design in coppettine verdi dall'aspetto commestibile; perché i fondi altro non sono che i carciofi mondati, sbarbati, e privati del gambo in modo che si reggano in piedi come delle simpatiche coppette.
Ho invocato il soccorso spirituale di (in ordine sparso): Madre, Beatrix Kiddo, San Nicola, Spongebob.

"Mondàti", si fa presto a dire "mondàti": ho indossato appositi guanti bianchi (o così, o cospargersi le mani di succo di limone, per evitare che si anneriscano: ma ricordatevi che il succo di limone brucia da morire anche su ferite che non sapete di avere), maschera da saldatore, tuta blu da metalmeccanico, e mi sono avvicinata con fare circospetto al nemico. Ho tolto le foglie esterne più coriacee, ho tagliato il gambo fino alla base, in modo che il carciofo si tenesse in piedi, e poi l'ho sbarbato, aiutandomi con un cucchiaino (se avete lo scavino per il melone, vi sbrigherete prima di me, ma non scoprirete le ultime frontiere dell'imprecazione).

Poi li ho messi in acqua acidulata con limone, e intanto ho fatto scaldare dell'olio in una padella con un po' di prezzemolo tritato e aglio (che si può togliere, dopo il soffritto); ho poggiato i carciofi nell'olio caldo e li ho fatti ambientare lì per qualche secondo. Poi ho coperto tutto con acqua e ho lasciato cuocere per una ventina di minuti a fuoco lento e col coperchio.
Dopo un po', tastando con la forchetta, ho sentito che il fondo era morbido (incredibile!), e ho lasciato cuocere senza coperchio per qualche minuto per far restringere ancora il liquido di cottura; in quel momento mi sono accorta che l'odore non era cattivo come temevo, e che - anzi - iniziavano a risvegliarsi ricordi anche della mia, di infanzia, perché della mia famiglia io sono l'unica che coi carciofi non aveva mai voluto avere a che fare.
Le vie che riportano ai giorni felici sono infinite, e mai avrei pensato di arrivarci a bordo di un fondo di carciofo.
Per la cronaca, ora stiamo facendo amicizia, ci sorridiamo quando ci incontriamo al banco verdure e stiamo pensando di provare a conoscerci meglio; non cercate l'apocalisse nella pioggia di rane: cercatela nel fatto che ho preso a mangiare carciofi.




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